Nella morsa della Giustizia
(ottavo e nono capitolo)
di Domenico Di Carlo
IN ONORE DELLA DEFUNTA
Il rito funebre venne fissato per il 25 ottobre alle 14:30 presso la Chiesa di Santa Maria del Carmine, però l’omelia funebre non sarebbe stata celebrata dal parroco della chiesa don Paolo Preti, ma da un cugino della signora Ghersi, don Vitaliano Coppa, vicario forense della parrocchia della Collegiata di Figline Valdarno.
In Chiesa al funerale partecipò una folla spropositata proveniente dal quartiere di San Frediano e dalle zone vicine. La giovane era conosciuta, rispettata e ben voluta. Tutti desideravano dare l’ultimo saluto alla salma e testimoniare profondo cordoglio ai genitori, anche le autorità politiche non poterono mancare: c’era il vice- sindaco in rappresentanza dell’amministrazione civica e c’erano anche i docenti, colleghi dei coniugi, seduti nelle prime file; defilati dietro un pilastro si intravedevano il capitano Angelo Torrisi e il maresciallo Parenti, i quali seguivano l’omelia in un raccoglimento severo, ma osservando attentamente i loro occhi si poteva percepire la commozione e il dolore per la ragazza innocente, accompagnati dalla frustrazione e dal disprezzo per il colpevole ancora in libertà.
In seconda fila erano seduti gli amici universitari Stefano e Lorenzo, che di tanto in tanto, esprimevano parole di conforto ai genitori, sia pure con voce tremante ed un’aria afflitta.
Dopo le preghiere di ringraziamento e testimonianza di fede al Signore, il rito funebre arrivò all’omelia di don Vitaliano Coppa.
«Preghiamo! Oggi è un giorno tetro e pieno di dolore. Patrizia ci è stata tolta con violenza, con un gesto di una viltà indicibile, troppo presto e troppo giovane per considerare la sua vita vissuta pienamente, ma il Signore vuole che abbandoniamo l’odio, per cercare forza e aiuto nell’amore e nella misericordia di Dio… Solo lui nella sua infinita misericordia può darci sollievo da tutta questa angoscia e dal dolore. Egli, ci ha insegnato a perdonare… Padre perdona loro… perché non sanno quello che fanno.»
L’omelia di don Vitaliano invitava a meditare, spronando a continuare a vivere, cercando di non rimanere intrappolati nella morsa dell’odio.
Terminato il rito funebre, la bara fu alzata e trasportata dagli amici Stefano e Lorenzo e dal padre, aiutati dagli addetti, fino ad adagiarla nel carro funebre. Fuori attendeva una folla ancora più numerosa, silenziosa, commossa e attonita. Alcuni piangevano, altri singhiozzavano, ma tutti accolsero la bara alla sua uscita dalla chiesa con un potente applauso pieno di trasporto. La processione si mosse dietro il carro funebre, si potevano distinguere ricordi di Patrizia, descrizioni di momenti passati con lei, ma anche parole decisamente meno benevole nei confronti di chi aveva stroncato in modo tanto drammatico e prematuro la sua vita.
La maggior parte dei negozianti, il giorno del funerale, tennero le serrande semiaperte in segno di cordoglio. L’assassinio di Patrizia aveva suscitato nella comunità di San Frediano una rinnovata coesione sociale, un nuovo vigore morale che sembrava quasi scomparso; le persone del quartiere che prima si salutavano velocemente, prese dalla frenesia del lavoro quotidiano, ora si intrattenevano più volentieri per parlare degli argomenti più disparati.
IL PALAZZO DEI SOSPIRI
Gli atti del fascicolo contenente la denuncia di smarrimento di Patrizia Ghersi, le indagini di polizia giudiziaria, il verbale di rinvenimento del cadavere e la perizia medico-legale, erano stati trasmessi per competenza dalla procura del Tribunale a quella della Corte d’Assise.
Il procuratore Sandro Campana esaminò gli atti e riformulò il capo d’imputazione in omicidio volontario a carico di ignoti. Dispose un’ulteriore ispezione sulla darsena, da eseguirsi palmo a palmo dalle forze dell’ordine, avvalendosi se necessario anche di mezzi e operai specializzati.
L’anno precedente l’Assessorato ai Lavori Pubblici di Palazzo di Città aveva raggiunto un accordo con la Provincia e Sovrintendenza delle opere pubbliche per i lavori di consolidamento della darsena dal tratto lungarno Pignone, fino al lungarno Soderini e questi cantieri furono ufficializzati.
Consapevole di ciò, il maresciallo Parenti, che aveva già partecipato alla prima ispezione della darsena, informò con un atto interno il procuratore della Corte per avere il nulla osta per l’inizio dei lavori anche sul tratto nel quale si ipotizzava l’esistenza del corpo di reato in modo da poter approfittare dei lavori in corso; il giorno successivo all’informativa del maresciallo, Campana dispose l’immediata convocazione dell’assessore ai Lavori Pubblici di Palazzo di città.
Il 14 febbraio l’assessore Giovanni Calderisi si presentò dal procuratore dopo essere stato annunciato dalla segretaria: «Buongiorno assessore, grazie per esser venuto il prima possibile.»
«Buongiorno dottore, non si deve preoccupare, ma avevo il presentimento che la sua chiamata implicasse una certa urgenza.»
«Ha ragione, lei sa, Calderisi, per cosa l’ho convocata?» Le parole, pronunciate in modo netto, deciso e determinato, colsero Calderisi impreparato e il suo sorriso scomparì immediatamente lasciando il posto a uno sguardo piuttosto preoccupato. Trattenne il respiro, tanto che fece fatica a pronunciare un «No.»
«Va tutto bene? Non mi sembra particolarmente in forma…»
«Non saprei a dire il vero, forse ho un po’ di febbre.»
«Allora si accomodi in poltrona, si metta a suo agio,» lo invitò Campana, a sua volta preso alla sprovvista dalla reazione del giovane, visibilmente scosso, sicuramente aveva qualcosa da nascondere, peccato che non fosse quello né il momento né il luogo per indagare ulteriormente: Campana aveva un dovere ben preciso.
Intanto l’assessore, rinchiuso in un agitato silenzio, divenne sempre più inquieto al punto da mordersi le labbra fino a sanguinare.
«Calderisi, l’ho convocata perché il suo Assessorato ha avviato i lavori di consolidamento della darsena tra il lungarno del Pignone e lungarno Soderini. La volevo informare, con tutta la riservatezza dovuta al caso, che il tratto tra ponte alla Carraia e il ponte Amerigo Vespucci è interessato da un’indagine di polizia giudiziaria afferente il mio ufficio. Desidererei evitare un sequestro penale. A tal fine, potremmo concordare che i lavori che l’impresa aggiudicataria eseguirà, avverranno alla presenza della polizia giudiziaria e dei tecnici comunali.»
D’un tratto, come i raggi del sole annunciano il giorno, il sorriso tornò sul volto di Calderisi che accettò la proposta. Sembrava che nulla fosse accaduto, forse era qualcosa su cui Campana avrebbe dovuto indagare.
Nei primi giorni dall’inizio dei lavori, l’ispezione non dette alcun tipo di risultato, il lavoro era semplice e ripetitivo, facile da supervisionare: le scavatrici arrivavano con le benne fino a un metro di profondità, poi la macchina del calcestruzzo riempiva i fossi di cemento.
I vari addetti della ditta esecutrice erano stati edotti dai tecnici sull’agire con cautela nell’atto dello sversamento della terra, dalla benna sul camion.
Al quinto giorno di lavoro, nel pieno delle sue solite mansioni, un operaio notò il riflesso di uno strano oggetto metallico e fece interrompere i lavori. In poco tempo si avvicinarono tutti gli interessati al cumulo di terra incriminato.
Dopo qualche minuto di attenta ricerca, dal terriccio emerse un coltello di marca “Sanelli” dal manico in noce scuro e con la lama lunga una trentina di centimetri, larga tre. A un primo sguardo, anche se sporca dal fango e vari altri residui, sembrava che la lama fosse sporca anche di sangue. Il maresciallo, che aveva già indosso i guanti bianchi per non contaminare le prove, prelevò il coltello e lo avvolse in una plastica che sigillò con la scritta corpo di reato.
A passo deciso, si diresse insieme agli altri carabinieri verso il capannone per il ricovero delle barche e tutti insieme entrarono nell’ufficio per redigere il più in fretta possibile il verbale del rinvenimento della presumibile arma del delitto.
Il giorno seguente il plico fu trasmesso da Parenti stesso alla Procura della Corte d’Assise, da allegarsi al fascicolo inerente all’omicidio di Patrizia Ghersi.
Il procuratore dette seguito al rinvenimento del corpo del reato e convocò per i rilievi di rito l’anatomopatologo Zinni, che in pochi giorni fece pervenire il suo giudizio:
La lama presenta tracce di terriccio e di sangue umano.
Il procuratore concordò con Parenti l’iniziativa d’ispezionare gli unici cinque negozi di coltelleria di Firenze che vendevano quello specifico set, il bar-ristorante nelle vicinanze del luogo del delitto che avrebbe potuto usare quella data marca di coltelleria e la macelleria sul lungarno Soderini, all’altezza della darsena.
Le ispezioni nei negozi di coltelleria diedero esiti negativi perché, a detta dei titolari, il kit “Sanelli” veniva venduto sul mercato a prezzo troppo alto rispetto alla media considerando anche la sua qualità, per questo motivo solo gli stranieri in vacanza ne erano interessati o i collezionisti specifici, difatti dopo averli venduti con grande difficoltà, non erano stati ordinati nuovamente.
Anche l’ispezione alla macelleria ‘La fiorentina’ non dette i risultati sperati poiché il macellaio non usava coltelli di quel tipo, ma si avvaleva di coltelleria comune. Invece l’ispezione nella cucina del bar-ristorante in quel periodo molto alla moda ‘Il giglio’, sembrò fornire qualche indizio: vennero rinvenuti, infatti, altri coltelli di dimensioni differenti a quelle del coltello ritrovato nella darsena, di uguale marca di quello incriminato.
Parenti alla vista di quei coltelli, mostratigli dal proprietario stesso del locale, dilatò gli occhi come un felino che posa lo sguardo sulla sua preda, si chiese se davanti a lui c’era un assassino o un uomo innocente. Toccò per un attimo le manette che penzolavano accanto alla fondina con la pistola, pronto per serrarle ai polsi del ristoratore. Odio e disprezzo alimentavano i suoi sentimenti di uomo e di padre in quel momento, ma prevalse in lui il lato dell’uomo di legge e della ragione, per il quale la giustizia primaria e non poteva permettersi di giudicare una persona solo con prove così deboli.
La lucidità tornò e il suo animo si tranquillizzò.
«Vitelli, è mio dovere sequestrarle i coltelli rinvenuti in cucina di marca “Sanelli”. Se non rilevanti per le indagini, le verranno restituiti,» disse il maresciallo, «possiamo accomodarci da qualche parte? Devo redigere il verbale di sequestro», continuò.
Vitelli, dopo aver ascoltato con attenzione, l’accompagnò nel suo ufficio dove Parenti scrisse quanto doveva e gli rilasciò una copia.
«Mi raccomando Vitelli, non si assenti da Firenze, resti a disposizione della giustizia», concluse Parenti.
«Dove vuole che vada? Io vivo in questo locale, sono a vostra disposizione, mi troverete sempre!»
Il gestore era un uomo di età intorno ai cinquant’anni, alto, asciutto, elegante, con un certo fascino, apparentemente aperto al dialogo.
I due si salutarono gentilmente.
Al rientro in caserma con il brigadiere, Parenti manifestò una certa soddisfazione, pensando di aver fatto un importante passo avanti.
«Brigadiere, come le sembra la situazione? Se non è stato lui, potrebbe essere stato qualche amico o conoscente che frequenta il bar-ristorante. Quel luogo non mi ispira fiducia, secondo me lui sa molte cose considerando il via vai di persone che frequentano quel posto,» disse Parenti.
«Maresciallo potremmo pedinarlo per tenerlo sotto pressione, così potremmo capire davvero se è una persona informata sui fatti,» concluse il brigadiere Antonioni.