RAMPIGNA – PARCO ARCHEOLOGICO: UNA SCELTA AZZARDATA?

di Ermanno Falco

Piazza Martiri Giuliano-Dalmati a Pescara, tra sottopasso ferroviario e via Caduta del Forte. Lì davanti, proprio all’ingresso dove entravano e uscivano atleti e addetti ai lavori del vecchio campo sportivo c’è un vecchio cancello metallico dai cui spiragli si può scorgere uno spicchio di quella che un tempo lontano era la fortezza inespugnabile della gloriosa “Strapaesana”, drappello ardito e gagliardo di giovanotti per lo più pescaresi che dava tanto filo da torcere alle più importanti squadre nazionali degli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale.

Chi, come me, ha avuto occasione di calcare con rispettoso orgoglio quel piccolo rettangolo dal fondo duro e pietroso anche quando la pioggia invernale ne trasformava le buche in pozzanghere tanto estese da sembrare piscine, non può non cedere alla tentazione di accostare il viso a quell’ammasso di ruggine e spiare dentro, come se lì si potesse nascondere qualche traccia di un passato lontano e rimpianto. Ma se anche un minuscolo frammento di ricordo si materializzasse, scovarlo sarebbe impresa a dir poco disperata, immerso come sarebbe dentro una inestricabile foresta di erbe e sterpaglie alta fino a due metri, infestata da insetti, ratti e bisce che proliferano indisturbati nell’assenza di ogni umana cura e presenza.

Il Rampigna versa in uno stato pietoso e fa pessima mostra di sé proprio nel cuore pulsante della città, per la quale rappresenta ormai una specie di bomba ecologica, un concentrato di pericoli e di sporcizia appena celato dalle mura di cemento innalzate negli anni ’60 per impedire la vista ai non paganti.

Ci si sarebbe aspettato che anche per questa vicenda, come per altre similari, le varie associazioni ambientaliste che, giustamente, sogliono alzare la voce per ogni albero abbattuto magari per motivi di sicurezza o per non demolire una catapecchia ridotta a rudere e pericolante, prendessero a cuore il problema, sottolineando pericoli e denunciando inerzie, fino a sbattere con le spalle al muro chi è evidentemente ben lontano dall’adempiere dignitosamente ai propri doveri amministrativi.

E invece tutto tace, con la comunità cittadina tenuta all’oscuro di cotanta trascuratezza, in una sorta di congiura del silenzio che coinvolge politica e informazione, sempre meno incline, quest’ultima, a mettere sguardo e dito sulle negatività di una città che nonostante tutto continua a mostrarsi vitale e propulsiva.

Basta fare un salto all’indietro di pochi anni per rinvenire fatti avvenuti e decisioni prese senza che sia stato possibile avviare un dibattito sufficientemente partecipato sulla destinazione di un sito che. oltre a rappresentare la memoria storica sportiva della città, costituisce un nodo essenziale nell’equilibrio urbanistico della stessa, un passaggio programmaticamente decisivo per il suo sviluppo a 360 gradi, soprattutto nel momento in cui va concretizzandosi il progetto unificativo della Nuova Pescara.

I pescaresi sono da sempre una comunità composita, frutto di aggregazioni succedutesi nei decenni che vanno dall’inizio del ‘900 fino ad oggi. Agli apporti demografici di abruzzesi di ogni provincia e italiani di ogni regione (particolarmente significativo il fenomeno socioprofessionale dei ferrovieri, arrivati per lavoro e conquistati dalla spinta pionieristica degli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale) si è andato sostituendo l’arrivo di stranieri provenienti da diverse parti del mondo.

In un contesto siffatto appare necessario fissare e adottare solidi elementi valoriali atti a garantire le migliori condizioni di convivenza, che uniscano armonicamente persone e gruppi di diversa origine etnica, linguistica e religiosa.

Lo sport, con la sua attrattiva giovanile e gioiosa, risulta, al pari della cultura, come la risorsa più idonea a cementare gente diversa ma che ha trovato nel nostro territorio le ragioni della propria affermazione lavorativa e del proprio radicamento familiare. Qualcuno però insegna che per garantire il diritto allo sport c’è sempre e dovunque bisogno di un sufficiente numero di strutture e di impianti col massimo livello di agibilità e confortevolezza, come si addice ad un Paese avanzato in termini di welfare.

Ecco allora che la scelta dell’Amministrazione comunale di Pescara di rinunciare alla ristrutturazione e riqualificazione del campo Rampigna appare quanto meno discutibile e perciò suscettibile di essere rivista alla luce di riflessioni più meditate e soprattutto maggiormente condivise non solo dai tecnici di settore e dagli addetti ai lavori, ma anche dai semplici cittadini, sulle cui teste in fin dei conti ricadono, a volte pesantemente, le scelte finali della pubblica amministrazione.

Sappiamo bene che a proposito di queste ultime andrebbe prima discussa e poi adottata una scala di priorità che permetta di graduare nel tempo e nello spazio provvedimenti e iniziative ispirate a una equilibrata gestione di risorse, territorio e aspettative.

Se analizziamo quanto accaduto su questa vicenda con la rimozione della destinazione sportiva di una struttura che è dentro al cuore di Pescara e dei pescaresi, non sembra fuori luogo ritenere che forse si è agito con troppa fretta, non ponderando con la giusta attenzione certezza del fare, tempi di attuazione e soprattutto disponibilità di risorse finanziarie necessarie a trasformare il vecchio campo sportivo in un Parco Archeologico depositario della storia di Pescara o meglio della sua progenitrice fondata dai Vestini, l’antica Ostia Aterni.

Sgombrando il campo da ogni possibile equivoco, va senza dubbio considerata meritoria e benemerita l’azione quotidiana di chi (Archeoclub, Fondo Ambiente Italiano, Comitati cittadini) difende e promuove il recupero delle radici storiche della città attraverso la scoperta, la tutela e la valorizzazione di siti, vestigia e riferimenti etnografici che contribuiscano a far luce sul passato troppo facilmente ignorato del territorio e di una “gens” che hanno avuto significativa rilevanza nel composito universo dei popoli italici molto prima di aree che godono di blasone ben più riconosciuto e celebrato.

La realizzazione di un Parco Archeologico va pertanto salutata come una formidabile occasione di qualificazione culturale, oltre che auspicabile trampolino di uno sviluppo turistico che sfati lo stereotipo di una Pescara tutta negozi, spiaggia e movida.

C’è però da chiedersi se, così com’è stato impostato, il progetto abbia i necessari presupposti di fattibilità tecnica e sostenibilità finanziaria e soprattutto se valga la pena o no destinare per sempre e interamente quel sito alla funzione archeologica in rapporto al numero e al valore dei reperti rinvenuti.

Forse sarebbe stato meglio, per capirci, lanciare e proseguire una campagna di scavi serrata e vigorosa, riservando all’esito della stessa ogni conclusiva decisione sulla sorte dell’intero spazio urbano delimitato da ferrovia, via Caduta del Forte, via Pesaro e via Spalti del Re.

Magari saltassero fuori vestigia storiche che necessitassero grandi aree di conservazione, studio e accoglienza di visitatori, tanto da innalzare alle stelle qualità e numeri della nostra offerta turistica!

Ma se così non fosse, la portata dell’intervento e la sua incidenza socio-urbanistica andrebbero diversamente graduate, rimodulando priorità e scelte e, allo stesso tempo, recuperando e restituendo alla pubblica fruizione infrastrutture a uso collettivo oggi in preda al più completo abbandono.

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