MOMENTI DI GLORIA. Un’estate da incorniciare per lo sport italiano
di Ermanno Falco
Usciamo dalla torrida estate 2021 un tantino esausti per le alte temperature sopportate, ma sportivamente rinfrancati da una impressionante e memorabile serie di successi riportati dai colori azzurri in contesti e categorie quanto più disparate e prestigiose.
Sembra quasi che un Paese intero abbia accumulato in un anno e mezzo di ansia pandemica una formidabile tensione capace di sviluppare un concentrato inusitato di energie fisiche e morali che hanno consentito ai nostri atleti di raggiungere traguardi di assoluto prestigio internazionale.
L’estro italico si è sublimato al meglio in diverse specialità sportive, prime tra tutte quelle in cui sono determinanti pazienza, preparazione, concentrazione e sacrificio personale portato all’estremo attraverso la quotidiana rinuncia alle distrazioni e agli svaghi tipici e in un certo senso legittimi quando si è giovani e non ancora oberati dalle responsabilità della vita.
Le moderne Olimpiadi che il barone De Coubertin volle istituire nel ricordo degli antichi Giochi Olimpici risalenti nientemeno che all’VIII secolo avanti Cristo, sono compendio e riscontro non solo della potenza sportiva di una nazione, ma anche e soprattutto della salute complessiva di intere generazioni giovanili, solo formalmente separate dalla diversa provenienza nativa ma accomunate da ideali, abitudini e aspirazioni avvertite e condivise a prescindere dalle divisioni di carattere etnico, politico o religioso.
In questo senso esse costituiscono un autentico crogiuolo ove ogni comunità deposita festosamente il meglio del proprio tesoro vitalistico, indirizzandolo non a malvagie pretese di supremazia, come nelle guerre, ma alla gioiosa spettacolarizzazione del proprio talento offerta a tutto il mondo, senza esclusioni o riserve.
Quando Marcell Jacobs taglia vittorioso il traguardo dei cento metri al termine di una corsa sofferta all’inizio e poi man mano più sciolta ed autoritaria, sino all’eroica resistenza opposta all’accelerazione finale dello statunitense Kerley, non è solo l’Italia ad esultare ed esaltarsi, ma con lei l’intera platea dei cultori della bellezza sacrale del gesto atletico e della umana fisicità, di fronte a cui gli avversari non devono sentirsi vinti, ma concelebranti partecipi.
Non vi è alcun dubbio, tuttavia, che per un Paese troppo spesso dileggiato per presunto eccessivo individualismo la vittoria più bella ed emblematica è stata quella della staffetta 4×100, una gara ove il valore individuale viene condiviso e messo alla prova dalla capacità suprema di collaborare in condizioni di difficoltà estrema come avviene nei passaggi di testimone, momento delicatissimo in cui un’intesa difettosa può distruggere anni di fatiche e vanificare le migliori qualità del singolo atleta. Rivivremo sempre con grande emozione tutte le fasi della gara: Lorenzo Petta che parte senza alcun timore reverenziale, Jacobs, il più veloce e non pago dell’oro già ottenuto, che come una potente locomotiva scala al primo posto, Fausto (nomen omen, il nome è un presagio) Desalu che tiene validamente testa al ritorno dei coriacei britannici e poi infine Filippo Tortu che riscatta se stesso con una meravigliosa volata “alla Mennea”, sorpassando all’ultimo respiro il suddito di Sua Maestà la Regina Mitchell-Blake, annichilito sul filo di lana mentre già pregustava il miele della vittoria. Fluidità e potenza della corsa e perfezione assoluta nei cambi sono stati i semplici segreti di un successo che dimostra che quando vogliono e possono gli italiani sanno validamente collaborare tra loro, senza peraltro rinunciare alle migliori prerogative individuali insite nel loro DNA.
Di assoluto prestigio è poi da considerare l’oro conquistato dall’anconetano Giammarco Tamberi nel salto in alto, a provvisorio coronamento di una carriera che di sicuro riserverà ancora ulteriori soddisfazioni ad un atleta che si è scoperto umano e schiettamente emotivo proprio nel momento della gloria, vissuto con commosso e sincero abbandono.
Scorrendo il medagliere finale appare chiaro che i successi riportati dagli azzurri non sono il frutto estemporaneo e casuale di prestazioni individuali scaturite da estro momentaneo e isolato. Al contrario, i dieci argenti e i ben 20 bronzi che fanno da scorta alle dieci medaglie d’oro testimoniano di una forte consistenza del movimento sportivo italiano, costruita sull’eccellenza del livello tecnico di tutti i nostri centri federali e sulla loro capacità nel reperire talenti e di affinarne i pregi tanto da renderli altamente competitivi.
Alle discipline che per tradizione hanno sempre fornito all’Italia soddisfazioni e successi, come il nuoto, la scherma, il ciclismo e il canottaggio si sono aggiunte vocazioni nuove soprattutto nelle arti marziali, come il Taekwondo, che ha visto il trionfo del pugliese Vito Dell’Aquila, del Karate, con l’oro del siciliano Luigi Busà, per non parlare del più tradizionale e praticato Judo con i meritati bronzi della bravissima romana Odette Giuffrida e della molisana Maria Centracchio. Meno brillanti che in altre occasioni, stavolta, i risultati dei tornei di squadra, con il Settebello di pallanuoto eliminato ai quarti dalla Serbia, che si sarebbe confermata campione olimpica e le pesanti débâcle delle rappresentative femminile e maschile di pallavolo, che di lì a poco, però si sarebbero magnificamente riscattate riprendendosi la scena internazionale conquistando entrambi il titolo di Campione d’Europa, ottenuto battendo in finale rispettivamente Serbia e Slovenia.
Ma se questi Giochi hanno rappresentato per noi motivo di soddisfazione e di orgoglio, la massiccia partecipazione ed i significativi successi ottenuti dai nostri ragazzi nei Giochi Paralimpici, svoltisi sempre in terra nipponica a cavallo tra agosto e settembre, inducono a una riflessione ancor più attenta sul significato etico e sociale di un evento che ha elevato come e forse più dei primi il Paese agli occhi del mondo non solo in riferimento alla semplice sfera agonistica, ma nella ben più rilevante dimensione del vivere civile e del welfare, inteso come sensibilità culturale e capacità d’intervento che lo Stato adopera per governare il sociale e la disabilità.
I risultati ottenuti dai nostri atleti paralimpici non sono per niente frutto del caso, ma costituiscono l’esito conseguenziale di un grado altissimo di attenzione verso le problematiche della disabilità che dalle nostre parti per fortuna hanno trovato terreno fertile data l’esistenza e persistenza di una idealità solidaristica che trae origine innegabilmente dalla concezione e dal valore che il cristianesimo attribuisce all’umanità e alla vita.
Tra le tante immagini di italiani vittoriosi resterà per sempre impresso nella nostra mente il miracolo incredibile di tre donne d’acciaio: Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Contraffatto, trionfatrici assolute nella finale dei cento metri, tra l’altro disputata sotto un nubifragio da tregenda e conclusasi con tre delicate ragazze italiane ad occupare l’intero podio, ricoperte di quel tricolore che solo qualche decennio fa suscitava ignobilmente in qualcuno ritrosia e imbarazzo.
Non è senza rilievo, inoltre, che queste nostre eroine rappresentino equilibratamente le diverse aree geografiche della penisola: Livorno caustica e irriverente (la Sabatini), la provincia bergamasca operosa e pragmatica (la Caironi) e la Sicilia appassionata e ferace (la Contraffatto), a dimostrazione che ad onta di pregiudizi ormai logori siamo da tempo un popolo solo e unito, alle prese con gli stessi (gravi) problemi e stretto in libera sorte ad affrontare le sfide della moderna globalità.
Detto delle due Olimpiadi, lo stellone italico ha avuto modo di rifulgere su altri scenari, ugualmente prestigiosi ed universalmente attenzionati, come il Campionato Europeo di calcio, vinto con merito battendo a domicilio l’Inghilterra, Paese ospitante la finale, quando eravamo reduci dalla mancata partecipazione ai mondiali di Russia. Un riscatto orgoglioso e autorevole che ci riabilita agli occhi del mondo e che rialza alla giusta altezza una nazionale ed un intero movimento che ha più volte dimostrato di saper risorgere dalle sue ceneri proprio dopo aver vissuto i drammi peggiori. Accadde nel 1970, quando solo il Brasile più forte di sempre ci negò il terzo titolo mondiale dopo che quattro anni prima avevamo dovuto subire l’atroce umiliazione nord-coreana, rimasta proverbiale allo stesso modo della fatale Caporetto. La cosa si è ripetuta in Germania, dove nel 2006 ci prendemmo la quarta stella mentre era ancora aperta la ferita dell’ingiusta eliminazione subita nel 2002 ad opera non tanto degli arroganti padroni di casa sud-coreani, quanto dell’ineffabile ed inqualificabile Byron Moreno, arbitro ecuadoriano che si rivelò anche dopo la manifestazione non degno di alcuna stima.
Nei verdi e progressivamente spelacchiati prati di Wimbledon è rifulsa la tempra agonistica di Matteo Berrettini, detto “il martello” per la potenza soprattutto del servizio, primo italiano a disputare la finale dopo 134 edizioni dei Championship e costretto a piegarsi solo al talento e alla mostruosa concentrazione di Novak Djokovic, che di lì a poco, però, ne pagherà il prezzo perdendo la finale degli US Open che gli avrebbero assicurato il Grande Slam.
Berrettini, Sinner, Sonego, Fognini: le punte di diamante di un movimento che ha ripreso vigore dopo lunghi anni di crisi del nostro tennis, tenuto a galla soprattutto grazie alle imprese femminili delle varie Pennetta, Schiavone, Errani, Vinci e compagnia bella.
Ma la fortunata stagione dello sport azzurro doveva riservarci proprio nel finale un’emozione che ci riporta a epoche eroiche, quando coraggio e forza facevano il paio con sacrificio e onore e il professionismo (o lo vogliamo chiamare affarismo?) dei milioni di euro e dei procuratori non aveva ancora rovinato lo spettacolo e la leggenda vivente impersonificata dai grandi campioni del ciclismo. La grandezza e la popolarità di questo sport meraviglioso nasce ora come allora dal connubio tra tecnologia alla portata di tutti e avventura picaresca, vissuto e interpretato tra rappresentazione agonisticamente teatralizzata del gravoso lavoro umano di una volta e ammirazione estasiata di quegli eroi di matrice omerica alle prese, a guisa di moderni Odissei, con insidie letali come le condizioni infami di strade e clima, oltre che con le non meno crudeli strategie avversarie, spesso condite di agguati e astuzie di ogni genere. E allora la maschera di fango che nasconde il ghigno liberatorio e ferino di Sonny Colbrelli mentre taglia vittorioso il traguardo di Roubaix è la più bella delle fotografie di questa miracolata estate italiana, perché ritrae con lirica efficacia la condizione e la grazia di una nazione che, rovistando dentro i bagagli della propria anima, trova la forza e il coraggio per arrivare alla meta prima di tutti.