Civitella del Tronto :L’assedio della fortezza
L’assedio della fortezza di Civitella del Tronto e la reazione legittimista del brigantaggio teramano negli anni 1860-1861
di Angelo Massimo Pompei
Presentiamo la seconda parte del saggio realizzato dal prof. Angelo Massimo Pompei, docente di italiano e storia dell’Istituto Tecnico Alessandrini, in preparazione della mostra sull’assedio della fortezza di Civitella del Tronto e sul brigantaggio nel teramano negli anni 1860-1861 prevista originariamente nei locali della Fondazione Pescarabruzzo in Corso Umberto Pescara dal 10 aprile al 10 maggio. Nella mostra, organizzata da Istituto Alessandrini, Fondazione Pescarabruzzo e Fondazione Celommi di Roseto, saranno presentate circa settanta tele sul tema realizzate dall’artista Renato Coccia.
(…segue dal numero di marzo…)
3 – La fortezza di Civitella del Tronto.
La fortezza di Civitella del Tronto
Tra la fine del ’60 e il ’61 gli Abruzzi furono un territorio nevralgico nei disegni legittimisti, perché terra di confine con quello che restava dello Stato Pontificio (dove si rifugiò Francesco II dopo la caduta di Gaeta), presidiata dalla piazzaforte di rilievo strategico di Civitella del Tronto, destinata a sbarrare il passo ad eventuali invasioni del regno borbonico dal nord. Posizionata al confine nordorientale del Regno delle due Sicilie, la fortezza di Civitella del Tronto era, insieme al castello di L’Aquila e alla fortezza di Pescara, il più importante presidio militare borbonico degli Abruzzi. Tuttavia, entro la prima metà di settembre, le ultime due si erano arrese, con lo scioglimento delle guarnigioni, alle nuove autorità istituzionali facenti capo alla dittatura di Garibaldi insediata a Napoli. La fortezza, sovrastante l’abitato di Civitella del Tronto, che “teneva in soggezione”, era costruita a circa 650 metri sul livello del mare in una posizione strategica dominante la vallata del Salinello e le varie strade che conducevano ad Ascoli, Ancarano, Campli e al litorale. La struttura della fortezza si sviluppava su una superficie di 25.000 mq e risultava per dimensione la prima d’Italia e la seconda in Europa; essa consisteva in una rocca, posta su uno sperone di roccia, alla quale si accedeva mediante una ripida rampa portante alle prime fortificazioni murate, cingenti tutta la fortezza fino al vertiginoso strapiombo. La fortezza era qualificata Piazza d’armi di seconda classe ed era giuridicamente equiparata ad un Reggimento del Regio Esercito borbonico. Fin dal 9 settembre 1860, con Bando Militare del Comandante Luigi Ascione, la fortezza era in stato d’assedio. Motivo della decisione erano gli avvenimenti politici che avevano portato il giorno precedente a Teramo alla nascita di un Governo Provvisorio, in appoggio al più generale rivolgimento politico che presto avrebbe portato il Sud all’annessione. Ma alla fortezza giungeva soprattutto l’eco degli avvenimenti che, in quegli stessi giorni, riguardavano la sopravvivenza del Regno delle Due Sicilie.
4 – Il contesto storico.
Il 7 settembre 1860 Garibaldi giungeva a Napoli con pochi seguaci ricevendo un’accoglienza trionfale, che segnalava il disfacimento ormai avanzato e irreversibile dello stato borbonico. Il giorno 11 settembre l’esercito piemontese varcava da nord il confine dello Stato Pontificio e il giorno 18 settembre sbaragliava l’esercito del Papa nei pressi di Castelfidardo. Il 20 settembre cadeva in mano ai piemontesi la città portuale di Ancona dove, il 3 ottobre, giungeva Vittorio Emanuele II. Infine, nei pressi del fiume Volturno, si svolgeva il I ottobre l’ultima definitiva battaglia campale tra l’esercito borbonico, costituito da non meno di 30.000 uomini, e l’esercito dei volontari di Garibaldi, di poco più di 20.000 uomini. La battaglia vide la vittoria di Garibaldi, anche se l’esercito di Francesco II conservava una considerevole potenza; l’esito politico-militare della battaglia fu però un grande successo per Garibaldi, perché il re di Borbone rinunciava a tornare a Napoli e si rifugiava nella fortezza di Gaeta per l’ultima resistenza, lasciando una parte dell’esercito a presidiare Capua. Il 12 ottobre, sul versante adriatico, l’esercito piemontese, con Vittorio Emanuele II alla guida, superato ogni indugio, varcava il confine del Regno delle Due Sicilie senza fermarsi davanti alla fortezza in stato d’assedio di Civitella del Tronto, che veniva aggirata proseguendo verso Giulianova, Castellammare, Pescara e Chieti, dove giunse il 18 ottobre. Il 19 ottobre i piemontesi erano a Popoli, il 23 a Isernia e il 26 a Teano, dove si ebbe il celeberrimo incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi. In questo contesto la fortezza di Civitella si era rivelata” inutilissima alla difesa del Regno, nel quale potevasi liberamente aver accesso da ogni lato; ma per tenere inquieta e in perpetua agitazione la provincia di Teramo, era una posizione eccellente” (8).
5 – Lo scoppio dell’insurrezione.
Dalla metà di ottobre 1860 Civitella subiva il blocco messo in atto dalla seconda Legione Sannita del tenente colonnello Curci (circa 400 volontari raggruppati in 4 compagnie di Guardia Nazionale) unitamente a reparti di fanteria e di granatieri dell’esercito regolare. In questa fase, “caratterizzata da una grande indecisione di entrambi i contendenti” (9), all’esterno della fortezza il 19 ottobre scoppiò la rivolta contadina. La miccia scatenante l’insurrezione era la convocazione del Plebiscito, che si doveva svolgere in tutto il Mezzogiorno il 21 ottobre: il popolo era chiamato a votare, con suffragio universale, l’unione delle Due Sicilie al futuro Regno d’Italia. “I gendarmi uscirono dal forte di Civitella con bandiere borboniche e a un segnale stabilito, i montanari di tutta la linea degli Appennini, che separano il Teramano dalla provincia di Aquila, si precipitarono nelle pianure. Furono invasi con violenza i villaggi, rovesciate le autorità, all’antiche sostituite le nuove, assalite le case, scannati i liberali come nelle invasioni de’ briganti: tuttavia sarebbe ingiustizia assimilare questi movimenti al brigantaggio dell’anno 1861. Negli Abruzzi poteva trovarsi almeno, nell’ottobre 1860, una ragione politica per spiegare questi fatti: La dinastia, non ancora esautorata, si difendeva a Capua e imperava a Gaeta: Il re delle due Sicilie non aveva abbandonato i suoi Stati. La rivolta scoppiava prima del plebiscito occasionata da quest’atto sovrano, che non aveva legittimata ancora la rivoluzione e la unione all’Italia. Legalmente parlando, i montanari degli Abruzzi usavano del loro diritto” (10). Di altro avviso era il contenuto della requisitoria svolta dal pubblico ministero presso la Gran Corte Criminale di Teramo a rivolta sedata:” Quando l’idra del brigantaggio appariva in diversi punti di questa provincia i nemici dell’attuale governo rappresentativo ed avversi alle istituzioni libere mettevano in pratica tutti i mezzi onde sollevare i popoli, nel fine di distruggere e cambiare quella forma di governo e di ristabilire la monarchia borbonica. Per riuscire nel loro intento, facevano intendere alla classe volgare contadinesca che essa era facoltata ad appropriarsi la roba altrui e di far man bassa sui liberali, ove risalisse al trono Francesco II, il quale aveva all’uopo concesse le più ampie facoltà. Così predisposti gli animi dei contadini, fecero precorrere la voce che nella votazione del Plebiscito, fissata pel dì 21 ottobre 1860, dovevano dare il voto a Francesco II e che in tale congiuntura dovevano farsi sopra i liberali e Guardia Nazionale per ripristinare il passato governo” (11). Gli episodi insurrezionali più significativi furono registrati a Controguerra, a Tortoreto, a Nereto, a Sant’Omero, a Corropoli, a S. Egidio e, soprattutto, a Campli. Qui il 23 ottobre un plotone della Guardia Nazionale, in servizio di perlustrazione, si era scontrato con una piccola colonna di legittimisti che marciava inalberando il vessillo borbonico. Nella scaramuccia conseguente era stato ucciso un elemento borbonico. Ciò causò la reazione della fortezza, che bombardò la cittadina di Campli. Il Consiglio di assedio di Civitella deliberò inoltre di svolgere un’azione di rappresaglia da attuarsi il 24 ottobre, attraverso l’invio di una compagnia della guarnigione divisa in tre colonne. Le tre colonne, dotate di artiglieria, erano accompagnate da due nuclei di contadini armati, di cui uno posto all’avanguardia, l’altro marciante in parallelo alla seconda colonna. Ogni colonna vedeva nelle sue fila un sacerdote. L’artiglieria, che consisteva in due cannoni leggeri, aprì il fuoco su Campli mettendo in fuga i cittadini. Le colonne entrarono allora nella cittadina, dove requisirono 450 fucili e 10 cavalli e arrestarono 24 dei “rivoltosi” che furono condotti nella fortezza. Campli fu lasciata al saccheggio dei contadini, le cui violenze causarono tre morti tra cui una donna di 37 anni. Nella stessa giornata a Valle Castellana la reazione borbonica abbatteva i simboli del nuovo regime e restaurava i vecchi, mentre con bando pubblico si ordinava la fedeltà al Re Francesco. Questi fatti, insieme ad altri che accadevano con assiduità nelle zone di confine tra Teramano ed Ascolano, allarmarono le nuove autorità, che richiesero l’urgente invio di truppe regolari per arginare il brigantaggio e iniziare l’assedio della fortezza. La Legione sannita di Curci, che si era proposta il blocco della fortezza, si trovava intanto nella innaturale posizione di essere passata da forza assediante a forza circondata dal nemico, perché stretta da un lato dalla guarnigione di Civitella, dall’altro dall’attività reazionaria esterna alla fortezza, in costante comunicazione con i soldati del presidio borbonico che operavano frequenti sortite. A sostegno di Curci il 2 novembre giunse un contingente di 530 uomini inviato dal Presidio Militare delle Marche. La ormai ragguardevole forza assediante si dispose a semicerchio intorno alla fortezza, ma ciò non determinò progressi sostanziali nella conduzione dello scontro. Nella stessa giornata del 2 novembre a Teramo, presso il Palazzo del Governo, il Governatore De Virgili emanava un’ordinanza “per reprimere il brigantaggio” con la quale si proclamava lo stato d’assedio e la formazione di Consigli di guerra. Si stabiliva che ”i reazionari, presi colle armi alla mano, saran fucilati” e che “gli spargitori di voci allarmanti, che direttamente o indirettamente fomentano il disordine e l’anarchia, saran considerati come reazionari, arrestati e puniti militarmente, e con rito sommario” (12).
Poeta e intellettuale di grande livello, Pasquale De Virgilii fu prodittatore a Teramo come emanazione della dittatura di Garibaldi a Napoli insieme a Troiano De Filippis Delfico e a Clemente De Caesaris. In seguito fu Governatore della Provincia di Teramo.
Il 10 novembre si registrava un ragguardevole episodio militare: una forza di 200 uomini composta da gendarmi e borghesi fece una sortita dalla fortezza e si scontrò, presso il convento di S. Maria dei Lumi, con una compagnia di bersaglieri, che fu cannoneggiata e mitragliata. Il 14 novembre gli assedianti inviavano una prima ambasciata al forte per chiedere al maggiore Ascione la capitolazione. La richiesta veniva rifiutata e lo stato di guerra veniva proseguito. Il 24 novembre numerose bande di legittimisti attaccarono la seconda Legione Sannita di Curci, che riuscì a salvarsi per puro caso sventando la sorpresa. Il 1° dicembre i soldati della fortezza effettuarono un’altra sortita, di concerto con i partigiani legittimisti operanti all’esterno; all’inizio l’operazione risultava efficace, perché il nemico si ritirò, ma poi, al sopraggiungere di rinforzi, i borbonici si ritirarono nella fortezza mentre i partigiani si disperdevano nelle campagne. Due giorni dopo si ripeté un nuovo attacco coordinato tra la fortezza e le bande operanti nel territorio, che risultò tanto efficace da sgominare i reparti sardi.
8) Marco Monnier, Storia del brigantaggio nelle province napoletane, A. Polla editore, Aq, 2000, p. 24.
9) Antonio Procacci, Storia militare dell’Abruzzo borbonico, Roman Style editore, Sulmona, 1990, p. 459.
10) Marco Monnier, op. cit., pp. 24, 25.
11) Cit. in Romano Canosa, Storia del Brigantaggio in Abruzzo dopo l’Unità, Menabò, Ortona, 2013, pp.16,17.
12) Cit. in Antonio Procacci, op.cit., p. 468.