Il punto sulla psichiatria. Diamo voce a chi vive e sente il problema
via mail di L. S.
La morte del giovane di Torino avvenuta recentemente a seguito del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) – al di là della dinamica ancora da chiarire – pone tanti dubbi e perplessità sulla gestione della psichiatria dopo l’entrata in vigore della legge 180 avvenuta nel 1978.
Cosa è accaduto nel frattempo e come venga tuttora applicata tale legge lo sanno purtroppo tante famiglie che vivono sulla loro pelle il dramma del disagio mentale di un congiunto, perché di certo l’abolizione dei manicomi non ha comportato la scomparsa della malattia. Anzi, si sono moltiplicate le forme e i sintomi per via della diffusione delle droghe e dell’alcool tra la popolazione giovanile.
La rivoluzione, come si sa, partì da Trieste ad opera del professor Basaglia, l’ideatore della legge il quale, per realizzare quella che lui chiamava “psichiatria umana”, aveva indicato una serie di strutture da realizzare sul territorio in grado di prevenire, assistere e curare il paziente. Sono i Csm (centri di salute mentale), le Comunità terapeutiche-riabilitative, i Centri diurni, e per le acuzie appositi reparti ospedalieri (Spdc). Nulla da eccepire sulla carta ma, essendo la sanità in mano alle regioni la legge 180 è stata applicata, per così dire, a macchia di leopardo, nel senso che quelle virtuose ne hanno dato un’attuazione ottimale ed in altre, specie al sud, sono prevalse invece logiche ed interessi lontani dal concetto di efficienza e spirito di servizio verso gli utenti. L’Abruzzo dove storicamente la psichiatria è stata gestita da cliniche private il settore pubblico continua purtroppo ad operare in un clima di sudditanza e di ambiguità nel quale si annidano alibi e colpevoli ritardi. Prova ne è il fatto che da noi non esiste una comunità riabilitativa a gestione diretta, ovvero pubblica, e il tentativo di crearne una proprio a Montesilvano quando la Asl acquistò, qualche anno fa, l’ex Hotel Paradiso si è smarrito tra le pieghe della burocrazia che ha frapposto mille ostacoli nonostante la vibrata protesta delle associazioni dei famigliari. Così la maggior parte dei pazienti finisce nelle comunità fuori regione aggravando i costi della sanità regionale e creando disagi alle famiglie.
Ma qual è il pericolo maggiore che paventava anche lo stesso Basaglia? E’ quello che in mancanza di un efficace funzionamento soprattutto dei Csm il carico della malattia sarebbe ricaduto sulle famiglie con tutte le conseguenze immaginabili. Oppure, come sta accadendo, i pazienti vengono confinati in strutture private senza controllo che di fatto ripropongono i modelli dei vecchi manicomi. Da tempo poi si nota anche una mancanza di quella verve iniziale che pure le associazioni avevano messo in campo per fare applicare in toto la legge, vittime forse di un senso di frustrazione e di impotenza, così che un velo di silenzio e di resa pare sia sceso su una malattia che, da sempre, ha fatto dell’indifferenza sociale e dello stigma la cura principale. Salvo poi gridare allo scandalo quando la sofferenza che reca con se la patologia esplode in tragedia. Perciò questo giornale, pur nella sua modestia, intende dare voce a tutti coloro che vivono e sentono il problema.
Risposta del Direttore:
Purtroppo come spesso accade in Italia le questioni di una certa importanza vengono affrontate pensando di risolverle con Leggi di riforma che prefigurano uno scenario che poi, puntualmente, non si realizza. La legge Basaglia, come la Merlin, hanno affrontato temi scottanti risolvendo alcune criticità, ma generandone altrettante di maggiore impatto per la difficile applicabilità. Insomma qualcosa che in teoria avrebbe dovuto risolvere finisce per complicare ulteriormente le cose. Il carico della malattia del disagio mentale oggi è per lo più a carico delle famiglie con costi sociali importanti. Per quanto possa questo mensile terrà la luce accesa sul tema.