Sicurezza pubblica
Di Marco Tabellione
È difficile affrontare il tema di questo numero in questi giorni di lutto, giorni in cui l’emergenza ha messo a dura prova la nostra regione, dando vita ad una serie di coincidenze catastrofiche, secondo una sequenza che forse memoria umana non ricorda. Tuttavia anche se la commozione e il dolore rimangono al colmo, bisogna cercare di riflettere su quanto accaduto, ripensarli bene quei giorni, le dinamiche, gli eventi, e, purtroppo, gli errori. Vi è un’inchiesta in corso, e la magistratura chiarirà come di sua competenza. Ma oltre ciò noi semplici cittadini possiamo azzardare un’analisi, o meglio delle ipotesi, delle suggestioni, piccole ed umili opinioni. Fermo restando il senso di profonda prostrazione e di rispetto per il dolore delle famiglie colpite, che hanno il diritto di piangere e affrontare questo momento così duro con il giusto tatto, il giusto silenzio e umiltà da parte dell’intera comunità.
È evidente che l’emergenza e l’infernale catena di cause che ha dato origine alla tragedia non erano prevedibili, né tanto meno ci si sente il diritto di puntare il dito, al di fuori di quelle che saranno le giuste vie giudiziarie. Siamo toccati tutti dal dramma di Rigopiano, e chi può ha forse il dovere di evitare polemiche che possono soltanto offendere il ricordo delle vittime. Non è al passato che forse dobbiamo guardare, il passato non si può cambiare, sentenze e giudizi vanno lasciati a chi dovere, appunto ai giudici. Dunque niente requisitorie, niente recriminazioni per quello che si poteva fare e potrebbe non essere stato fatto, il condizionale è infatti d’obbligo. Tuttavia se al passato non si può rimediare, dal passato si può imparare, ed è al futuro che occorre cominciare a pensare in termini costruttivi, con tutta la serenità possibile, la voglia di fare, di dare vita così ad un progetto difensivo della comunità che possa risultare efficace appunto nei momenti di emergenza e quando la natura mostra la sua forza, inaspettata e imprevedibile.
Le vie da percorrere sono evidentemente due: una a breve termine, l’altra a lungo termine. A breve termine gli forzi vanno fatti per mettere in sicurezza quanto più possibile le piccole comunità dell’interno, fornire i comuni dei giusti mezzi, fare sì che si possa vivere bene e tranquilli anche laddove sembra che i servizi tardino ad arrivare, oppure il decentramento produce comunque inevitabili svantaggi. Ma forse dietro tutta la storia dell’ultima emergenza, che purtroppo non è la prima degli ultimi anni, si profila un problema e un dramma che va anche al di là, il dramma di realtà comunitarie destinate a scomparire, e che invece potrebbero fornire ancora molto al miglioramento della qualità della vita nella nostra nazione. Sì perché (e siamo alla soluzione a lungo termine) è evidente che la vita di paese va rivalutata proprio alla luce delle sempre più cattive condizioni della vita cittadina, dove smog, rumori, inciviltà diffusa, criminalità stanno dando vita ad aspetti non proprio da società che si possano definire civili ed evolute. Eppure le nostre piccole realtà, in cui si potrebbe davvero avere una finestra di autentica evoluzione proprio a partire dalle tradizioni della vecchia civiltà contadina, vivono il dramma del costante abbandono e della costante noncuranza. Ecco cosa purtroppo dobbiamo leggere dietro le emergenze e gli ultimi tragici fatti, o meglio anche questo dobbiamo leggere. L’abbandono innanzitutto culturale delle comunità dell’interno, in un momento in cui sporadici investimenti (si pensi a Santo Stefano di Sessanio) hanno dimostrato la possibilità di dare vita ad un’economia produttiva basata sulle qualità e non sulle quantità. È la proposta che può venire ancora da terre oggi martoriate, prima dimenticate e poi colpite duramente da una natura che, tuttavia, non possiamo considerare nemica. Proprio perché la natura, in questa proposta di civiltà nuova che potrebbe venire dalle comunità montane e collinari, è parte integrante di uno stile di vita qualitativamente superiore.