Il liceo in quattro anni

di Pasquale Sofi

Fa rabbia leggere o sentire di riforme scolastiche campate in aria proposte dal Ministero della Pubblica d’istruzione. Non credo sia possibile classificare diversamente l’invereconda proposta di ridurre a quattro gli anni di un percorso liceale, inserito in un contesto già sgangherato come quello attuale della scuola italiana. Definire poi sperimentazione, la decurtazione quasi obbligata di un percorso didattico che il nostro pavido Ministro è costretto ad adottare (per il veto dei sindacati alla riduzione da 13 a 12 anni dei percorsi formativi nazionali) per uniformare la scuola italiana ai dettami europei, rende l’idea di quanto poco lucide siano le menti dei nostri decisori. Sono trascorsi poco meno di quindici anni da quando (2008) l’UE ha adottato l’EQF, ovvero il quadro delle “qualifiche”, utili per la circolazione in ambito europeo dei titoli di studio nazionali e delle competenze in uscita a questi abbinate. Di fatto la UE ha scandito i percorsi didattici in segmenti coniugandovi le competenze conseguite al termine di ciascuno di essi; e ha fissato di fatto che per il conseguimento dei diplomi (con le rispettive competenze) tutti gli indirizzi di studio si debbano esaurire nell’arco di dodici anni. In questo percorso europeo il tratto ultimo è di quattro anni come vorrebbe il Ministro, ma è preceduto da una propedeuticità che lo rende funzionale e che la recente proposta di liceo in quattro anni non avrebbe. A tal proposito noi italiani siamo stati protagonisti di un contenzioso con l’EU, riportando gravi perdite, allorquando si è cercato di disconoscere la valenza abilitante del titolo quadriennale del vecchio Istituto Magistrale. Tutto questo avrebbe dovuto far riflettere e portare alla ristrutturazione almeno degli Istituti Professionali (hanno tutti qualifiche triennali con l’opzione di un ulteriore corso post qualifica biennale) e invece tutto ancora tace mantenendo lo status quo. Così facendo il Ministro, con quella che lui chiama sperimentazione, vorrebbe tentare di sanare una carenza che si protrae da anni e che tutti i ministri, a partire dalla Gelmini ad oggi, hanno regolarmente disatteso a discapito dei nostri studenti che conseguono il diploma un anno dopo i loro colleghi europei. Va anche puntualizzato che un tempo una sperimentazione di ordinamento e struttura come quella proposta, così almeno veniva definita, si caratterizzava, obbligatoriamente, per una contestuale sperimentazione di tipo metodologico didattico. Ma quale didattica è possibile se in questo paese una banale forma di comunicazione come la DAD viene spacciata per didattica? Ma al peggio non c’è mai fine: dopo i banchi a rotelle (che comunque avrebbero potuto e dovuto rispondere a una logica didattica) il nostro Ministro per potere aggirare gli ostacoli di natura sindacale non ha trovato di meglio da proporre che uno sconquasso dell’offerta formativa liceale esistente. Non che quest’ultima rappresenti l’optimum ma, come al solito, si affronta il problema senza una visione d’insieme e senza definire un progetto di scuola, bensì semplicemente cercando una scontata scorciatoia, che in questo caso vuol dire comprimere un segmento formativo incuranti delle competenze, acquisite e da acquisire, quantomeno idonee ad affrontare il nuovo percorso di studi.

È noto a tutti da tempo ormai che i bambini al primo anno della scuola primaria imparano a leggere e scrivere in pochi mesi, mentre la vecchia scuola elementare concedeva due anni ai piccoli allievi per raggiungere le stesse competenze; pertanto logica vorrebbe che si iniziasse a sperimentare proprio dalla scuola primaria eliminando uno dei cinque anni di questo segmento. Sarebbe stato decisamente più opportuno così, seguire da subito fin dalle prime classi della primaria una didattica per competenze e adottare, al posto di una valutazione numerica finale, una certificazione delle stesse rispettosa degli standard in uscita europei nei vari step e gradi di scuola. Verrebbe così consentito, contrariamente a quanto ipotizzato con il liceo in quattro anni, agli studenti di affrontare i vari percorsi scolastici con le giuste competenze utili alla propedeutica e necessaria continuità. Si tratterebbe di una “quasi riforma”, rispettosa delle norme europee, da imporre ai sindacati, ma il Ministro questo coraggio oggi non sembra possederlo.

E oltretutto la scuola, accanto alla impellente sistemazione di quanto suddetto, avrebbe bisogno di rinnovare sia l’offerta formativa che la proposta didattica, in qualche caso ormai quasi centenaria. Forse, come avveniva una volta, si aspetta che a muovere il primo passo siano le case editrici oppure che la ricerca didattica dei soliti Salesiani tiri fuori dal cilindro novità eclatanti; ma i tempi sono cambiati e tutto ristagna all’insegna della conservazione. Nel mentre i paesi più evoluti sperimentano nuovi processi didattici, magari attraverso simulazioni di realtà virtuali (sulla scorta ad es. del metaverso), da noi i nostri studenti oltre che pretendere un esame di Stato facilitato (che le strane logiche indotte dal reddito di cittadinanza stiano entrando nelle menti dei giovani??) contestano l’alternanza scuola-lavoro che dovrebbero da salvaguardare nel merito.

È vero purtroppo che l’esperienza di alternanza è stata di recente funestata da due incidenti mortali, ma confondere una pratica di avviamento al lavoro con la sicurezza nei luoghi di lavoro è un grave errore. Certamente in Italia la sicurezza sul lavoro non ha raggiunto ancora livelli quantomeno dignitosi, ma l’incidente è sempre da prevenire. L’alternanza invece nasce dal bisogno di dare spendibilità all’attività didattica da noi eccessivamente circoscritta nello sterile ambito teorico. Gli incidenti (dalle dinamiche diversificate sulle quali dovrebbero riflettere i legislatori) poi è si sono verificati in luoghi dove è possibile avviare tali attività, per la presenza di numerosissime aziende capaci di ospitare gli studenti. Di converso sono tante le scuole che, purtroppo, sono costrette a ricorrere ad esperienze estemporanee, nel migliore dei casi simulate, per ovviare a tali carenze nei territori. Tornando poi alla rivendicazione studentesca di un esame meno rigoroso, è da rimarcare la grossa ingenuità dei manifestanti che, rinviando alla DAD i timori e le responsabilità di una loro eventuale preparazione approssimativa, si stanno rendendo protagonisti di un’autoaccusa. I maturandi di qualche tempo fa non avrebbero mai spifferato ai quattro venti realtà che in un futuro prossimo potrebbero ritorcersi contro di loro.

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