Tecnologia e umanità
di Marco Tabellione
Ormai non ci sono più dubbi, stiamo assistendo ad un mutamento antropologico, dovuto all’imposizione tecnologica. La tecnologia si pone come una modalità imprescindibile, a cui non si può rinunciare pena l’esclusione dal consorzio sociale, per questi motivi è opportuno parlare di dittatura tecnologica. Per quanto possano sembrare esagerate, tuttavia queste considerazioni non possono essere taciute. Esploriamo dunque questa idea grave, che ci autorizza a parlare di autoritarismo tecnologico. È evidente che il digitale, per i suoi risvolti onnicomprensivi, si pone come una metodologia irrinunciabile; oggi inevitabilmente occorre un’identità digitale e password a non finire per potersi muovere in ambiti che ogni individuo ha il diritto ma anche il dovere di frequentare, come quello burocratico e amministrativo. Dunque non c’è nessuna alternativa per chi volesse pensare di poter fare a meno della realtà virtuale costituita dal web. Tutto è ormai sulla rete, tutto è on line, il digitale è chiaramente il futuro dell’umanità. Il problema è che queste nuove metodologie stanno determinando un cambiamento antropologico senza precedenti.
Certo, l’umanità è sempre stata in evoluzione, non c’è mai stato un momento in cui l’uomo non sia stato portato a rischiare, cambiare, migliorare la propria condizione innanzitutto materiale, anzi quasi sempre esclusivamente materiale. Da questo punto di vista, le nuove tecnologie si pongono come l’apice di un lungo processo che ha portato benessere e miglioramento, e che sarebbe pazzia non considerare positivamente. Il problema però è che ora il miglioramento e il cambiamento stanno intaccando la radice stessa dell’essere umano, modificando in negativo aspetti che per millenni sono rimasti identici. Tra questi, tanto per fare un esempio, analizziamo la modalità di pensiero; essa non è più basata su associazioni lineari, determinate o da principi di causa ed effetto o da liberi collegamenti di tipo emotivo, sensoriale, immaginativo e via dicendo. Ora quella forma lineare e univoca è stata definitivamente sostituita, nel quotidiano, da una dimensione non più lineare, ma appunto a rete, ramificata. Gli input su cui riflettiamo o pensiamo intuitivamente non sono più singoli, ma moltiplicati, compresenti, veloci e immediati, tali da non permettere una decodifica lenta e ragionata. La linearità di un pensiero controllabile e gestibile dalla coscienza è stata sostituita da una simultaneità moltiplicata, da una compresenza di fattori che non possono essere gestiti adeguatamente.
Ciò inevitabilmente ha acuito la passività del fruitore rispetto al passato. Se un tempo davanti ad un messaggio pubblicitario televisivo unico la forza di reazione coscienziosa era sufficiente e adeguata, oggi non riusciamo più a comprendere e a vagliare sufficientemente l’acquisizione di percezioni intuitive di cui non ci rendiamo conto. Insomma gestiamo più informazioni in un lasso di tempo minore, ma siamo meno in grado di analizzarle e farle nostre. Ma, come detto, questa ramificazione del pensiero e la sua riduzione in termini di profondità è solo un esempio di cambiamenti la cui portata è ancora difficile da definire. In generale è evidente che la sofisticazione sempre maggiore delle macchine e dei calcolatori, arricchiti dall’operare vertiginoso degli algoritmi, perfeziona eccezionalmente il rendimento di lavoro, ma diminuisce nel contempo la portata creativa del singolo, la sua autonomia, la sua presenza attiva, relegandolo in un ruolo passivo e di consumo. Lasciar fare alla intelligenza artificiale – che non dovrebbe essere definita intelligente perché è pur sempre legata ad un esclusivo processo di calcolo e non è in grado di comprendere i significati che elabora – si diceva lasciar fare quasi tutto all’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi come un errore madornale.
Che fare allora? Sinceramente non lo so. Ogni probabile opposizione all’idea dell’uso di calcolatori nei vari campi umani rischia di essere tacciata di eresia. Credo che si possa però chiedere aiuto a colui che è il fondamento universale della cultura occidentale, vale a dire a Platone. Nel Fedro il suo maestro Socrate, di cui Platone riporta il pensiero mediante la forma del dialogo in tante opere di straordinaria importanza, racconta un apologo nel quale protagonista è la scrittura. La scrittura a quel tempo rappresentava una rivoluzione paragonabile alla rivoluzione del digitale nella contemporaneità. Uno studioso diffusore della nuova modalità di comunicazione la propone al faraone, insieme all’arte del calcolo, sostenendo che mentre il calcolo avrebbe aumentato la velocità di gestione di merci, oggetti e quant’altro, la scrittura avrebbe consentito un potenziamento della memoria. Il faraone però controbatte in tono perentorio, sostenendo al contrario che invece la scrittura avrebbe piuttosto inibito la facoltà della memoria, dal momento che avrebbe demandato ad un agente esterno una facoltà biologica umana interiore. Che un concetto venga scritto, commenta Socrate, non vuole dire che sia più facile e assimilabile.
Socrate insomma appare contrario alla scrittura come forse apparirebbe contrario al digitale, esprime dubbi per tutte le invenzioni che, assicurando operazioni un tempo assunte direttamente dall’uomo, giungono a inibire e ad atrofizzare le relative facoltà umane. Ecco perché è giusto dire con McLuhan che “il medium è il messaggio” e non è neutro, nel senso che non basta criticarne gli abusi, poiché è la macchina stessa che determina un cambiamento di qualità, sia in senso positivo sia in senso negativo. Per questo l’esempio di Platone resta ancora valido. Le critiche di Socrate alla scrittura sono state diffuse ed in un certo senso eternate proprio attraverso la scrittura; il che equivale a dire che la presenza di strumenti, che mediano e agevolano i processi della vita umana, non possono e non devono sostituire la vita stessa, possono appoggiarla, affiancarla, ma guai se determinano un cambiamento dell’orizzonte di senso. E, questo, purtroppo è ciò che per certi aspetti sta accadendo.