CAPIRE LA DISLESSIA
di Gianfranco Costantini (num. Luglio 2019)
Vita, morte e miracoli di un dislessico, mancino e mazziato
La dislessia in età scolare (parte prima)
La vita di un dislessico non è dura, è assolutamente normale, tranne il caso in cui si è uno studente. In quel caso e a determinate condizioni, l’esistenza può diventare terribilmente difficile È un po’ come per un guidatore inglese alla prima esperienza di guida a sinistra, nelle strade tortuose e incasinate di una metropoli mediterranea.
Non so se ho reso bene l’idea! Ma l’esempio così congegnato può aiutare a comprendere il dislessico che non è un ritardato, ma possiede semplicemente uno schema mentale differente dalla maggioranza delle persone che lo circondano e ha bisogno delle proprie strade, esattamente come il guidatore inglese al fine di esprimere il meglio di sé.
Ero un bambino sereno, amavo la vita all’aria aperta e Montesilvano, nei primi anni Ottanta, era il luogo ideale per me; giornate intere passate a giocare nei campetti improvvisati, fatti di sabbia e ricoperti di gramigna, i piedi a mollo negli stagni per ore correndo dietro alle rane, sfilando le radici di liquirizia, insomma una vita normalissima, vissuta come qualsiasi altro bambino della mia età. Tutto bene finché non è iniziata la scuola: all’inizio la difficoltà di tutti i bambini, ma poi qualcosa mi cominciò ad allontanarmi dal resto della classe. Non era certo il carattere, tanto meno la volontà di conoscere, eppure qualcosa durante le lezioni mi respingeva dal resto dei compagni di classe.
La maestra oramai ripeteva sempre le stesse cose e dentro di me montava la rabbia perché non capivo.
I ceffoni, le tirate di orecchie (a quei tempi le maestre menavano più dei bulli), il primo banco solo attaccato alla cattedra, dal lato opposto c’era sempre un altro malcapitato come me, questa era la regola.
Io a scuola ero tutto quello che un bambino non doveva essere: mancino e dislessico.
Ricordo bene la mano sinistra dietro la schiena per obbligarmi a scrivere con la destra, dovevo resistere al dolore per il gesto innaturale e al contempo il ritardo che accumulavo a ogni dettato, faceva aumentare la vergogna che provavo ogni qualvolta la classe doveva fermarsi per aspettarmi. Nonostante tutto, l’umiliazione cui ero sottoposto era ancora accettabile in confronto a quella che provavo durante la lettura.
Per un dislessico, quindi per me, la lettura era il vero e forse unico grande limite, per due ordini di ragione: la prima era che si perdeva facilmente il rigo quando si andava a capo e le lettere sembravano muoversi sotto i miei occhi, la seconda era che il grande sforzo nel coordinare la voce con lo sguardo impediva la comprensione del testo.
Il mio schermo visivo (così come tutti i dislessici, credo) era differente da quello degli altri bambini, anche nella corretta individuazione delle lettere, spesso la B diventava la D o la S sembrava proprio la Z.
Queste banalità e l’assoluta certezza che anche con un grandissimo allenamento non sarei mai riuscito a leggere alla stessa velocità degli altri mi hanno impedito di accettare il confronto scolastico, già nei primissimi anni di scuola.
Il grande trauma provocato da vere e proprie torture, perpetuate inconsapevolmente dalla maestra, lasciava scivolare in secondo piano le altre difficoltà che avevo: la discalculia e la disgrafia (disturbi solitamente accessori alla dislessia).
Su di me e sulle mie difficoltà si scaricava tutta l’inadeguatezza di un sistema che aveva mal disegnato la didattica scolastica, mal preparata la maestra che, non capendo niente di dislessia, caricava su di un bambino inconsapevole tutte le sue frustrazioni da insegnante fallita (nei miei confronti ovviamente).
Per fortuna come la stragrande maggioranza dei bambini della mia età vivevo libero da condizionamenti, avevo genitori normali, non divorziati, senza l’incubo della famiglia allargata. La società era più equilibrata e cooperativa, le famiglie erano poco inclini a caricare i figli di ansie da prestazione, cosi come accade oggi nella società neoliberista e solo questa serie di fortunate condizioni mi hanno consentito di vivere un’esistenza scolastica dura ma dignitosa e un’esistenza extra scolastica a dir poco meravigliosa.
Il dislessico, a mio avviso, anche nella prima età scolare non ha nessun ritardo o difficoltà nell’apprendimento, ma ha semplicemente un differente schema mentale, legato a una differente evoluzione cerebrale: usa l’ascolto al posto della lettura e si rapporta meglio nella tecnica, la gestione delle cose negli spazi aperti piuttosto che in un’aula chiusa, con un foglio di carta pieno di simboli. Questo probabilmente perché nella storia dell’evoluzione umana, per migliaia di anni, il sapere di massa è stato tramandato oralmente e al contempo l’uomo viveva negli spazi aperti; solo in alcune culture la scrittura ha avuto un ruolo importante nelle masse e, a ben vedere, solo nell’ultimo secolo con la scuola dell’obbligo ha avuto il ruolo che ha.
È oramai unanimemente riconosciuto che il cervello del dislessico ha un forte radicamento nell’apprendimento orale con una marcia in più quando osserva o ascolta un concetto, ma una in meno quando lo stesso lo legge.
Io sono assolutamente certo di questo perché ho completato gli studi quasi senza studiare, semplicemente ascoltando la lezione: infatti anche distratto da altre conversazioni riuscivo a seguire il discorso. Questa particolare abilità mi ha consentito di completare il ciclo scolastico con il diploma, senza sforzi. Nonostante la mia grave dislessia, da bambino ho vinto un paio di premi di poesia con una pubblicazione sul quotidiano “Il Tempo nazionale” e, quando da studente dell’istituto “Tito Acerbo” decidevo di studiare qualche argomento che m’interessava particolarmente (soprattutto storia, diritto, economia), capitava a volte che facevo copiare i compiti in classe ai compagni perché ero altruista e soprattutto volevo sdebitarmi con chi altre volte mi consentiva di copiare; fioccavano i dieci per tutti, tranne che per me che prendevo regolarmente tre, perché i professori pensavano che fossi stato io quello che aveva copiato.
Insomma, il dislessico deve aver ben chiaro che con l’ascolto può fare tutto, quindi le restanti tecniche di apprendimento come la lettura, la scrittura e la ricerca dovranno essere sempre presenti ma come coadiuvanti dell’apprendimento.
Con il crescere questa terribile esperienza mi ha portato in dote un carattere ferreo e una determinazione che altrimenti non credo avrei avuto.