“Un paese non vuol dire essere soli” lettere al direttore
“Un paese non vuol dire essere soli”
ricevuta via mail da Tommaso Pace
Gentile direttore,
meriterebbe uno spazio sul suo attento giornale (ne basterebbe pochissimo, sottratto magari ai commenti postelettorali) una notizia giunta nelle settimane scorse dalla ‘lontana’ Villa Verrocchio.
Muore in solitudine un uomo, un ‘ormai ottantaseienne’ del quale la stessa pagina de ‘Il Centro’, pubblicata il 27 gennaio, non è risalita (è significativo) a un nome. Lo chiameremo Antonio. L’uomo muore nell’assoluta solitudine in cui viveva.
Avrà magari emesso un lamento dal suo giaciglio, nell’arrendersi al malore, senza che poi nessuno per giorni lo abbia cercato accorgendosi della sua fine. Da tempo Antonio si era fatto da parte. Era egli stesso la sua famiglia. Una condizione sempre meno infrequente quella di vivere e morire ignorati.Non sono disposto ad archiviare il caso come singolare ed irripetibile. La cronaca di tanta emarginazione ci costringe a riflettere più di quanto non incuriosisca l’epilogo della vicenda.Raccoglieva gatti, Antonio, ai quali provvedeva. Vivevano con lui, (due stanze con giardinetto, riferisce il quotidiano), più o meno venti randagi dai quali sapeva di essere atteso rincasando. Sentirsi utili a qualcosa o a qualcuno è indispensabile per non chiudere subito con la vita. Quei gatti hanno a lungo vegliato il suo corpo sempre più disorientati dalla definitiva immobilità.La circostanza di crescenti e strazianti miagolii, specie notturni, alla lunga insopportabili, aveva destato attenzione, fastidio e ragionevoli sospetti nei vicini. Alla segnalazione seguiva l’intervento di ‘chi di dovere’, quindi il triste rinvenimento.
Evitiamo conclusioni moraleggianti ma, l’arrivo di cronache come questa impone il tema della invisibilità sociale e quello della solitudine, condizioni per nessuno di noi del tutto improbabili. Navighiamo sempre più coinvolti in internet, corrispondiamo per posta elettronica con l’umanità più lontana, purché quella prossima a noi non chieda di essere avvicinata, magari solo salutata distrattamente o all’ occorrenza soccorsa.
“Un paese vuol dire non essere soli” è un bel verso di Cesare Pavese. Villa Verrocchio di Montesilvano, come mille altre contrade, appare ormai sempre più parte di una moderna, concitata città. “Ognuno a rincorrere i suoi guai…ognuno per un sentiero diverso… ognuno in fondo perso… dietro i fatti suoi…” canta il grande Vasco. Da paese a città: un vero sorpasso! Dobbiamo compiacercene?
La risposta del direttore
Gentilissimo sig. Pace,
la ringrazio della sua sollecitazione in grado di riportarci alla realtà che ci circonda. Sempre più spesso ci occupiamo del prossimo lontano e ci accapigliamo in infinite e politicizzate discussioni riguardo ai lontani migranti, ma poi non siamo in grado di essere solidali con chi ci è più vicino. Non dimentichiamoci che prossimo proviene dal latino proxĭmus e significa “molto vicino nello spazio”. Non posso che ricordare il comandamento Ama il tuo prossimo come te stesso” (Matteo 22, 37-39). Non posso e non voglio dare giudizi sui vicini della buonanima – tale doveva essere se raccoglieva e provvedeva ai gatti – ma purtroppo non gli hanno evitato la solitudine nell’ultima fase della vita terrena. Ecco, sollecito tutti a riflettere su quanto accaduto e a sorpassare l’indifferenza.