Mattia Russel Pantalone, un cervello abruzzese all’estero
Raccontiamo sempre con orgoglio le storie di abruzzesi che riescono a farsi valere sul campo, in Italia e all’estero. Stavolta è il turno di Mattia Russel Pantalone, 26 anni, teatino, che sta tenendo alta la bandiera della nostra regione in terra svedese.
Il 16 luglio scorso, all’Università d’Annunzio di Chieti, questo giovane ricercatore ha conseguito la laurea in medicina con la votazione di 110 e lode, discutendo una tesi che era frutto di un importante lavoro ricerca, a cui ha preso e sta prendendo ancora parte presso il Karolinska Institutet di Stoccolma. Una ricerca che lo ha portato a scoprire e isolare un virus che gioca un ruolo fondamentale nell’insorgenza del paraganglioma, un raro tumore neuroendocrino. In questa intervista è lui stesso a spiegarci meglio gli aspetti scientifici della sua determinante scoperta e a parlarci di gioie e dolori di una vita da ricercatore italiano all’estero.
di Maria Letizia Santomo
Dott. Pantalone, nelle settimane scorse, in occasione della discussione della sua tesi di laurea, tanti giornali hanno parlato di lei e dei risultati della sua ricerca, sottolineandone l’enorme valenza scientifica. Nessuno però ha approfondito gli aspetti riguardanti la malattia che ha origine dal virus da lei isolato. Vogliamo spiegare per bene, ma con termini non troppo tecnici, cos’è un paraganglioma e che incidenza ha nella popolazione?
Il paraganglioma è un tumore neuroendocrino che può originare in varie parti del corpo a partire dai gangli del sistema nervoso autonomo. È un tumore raro, ha un’incidenza di 1-2 casi per milione. È generalmente associato a delle mutazioni che ne predispongono l’insorgenza, ma che non sono in grado da sole di causarla. Infine, è bene considerare che, dato che il paraganglioma può originare in varie parti del corpo, ciascuna diversa localizzazione richiede una competenza chirurgica specialistica differente, per cui l’approccio terapeutico non è sempre semplice e standardizzato.
Perché è così importante fare ricerca su un tumore così raro?
Per tre motivi principali, a seconda di come si vede il problema: da un punto di vista etico mi piace pensare che, indipendentemente da quanto rara o comune sia la malattia che lo affligge, ogni paziente è unico e ha quindi diritto ad avere dignità e una cura a disposizione. Da un punto di vista scientifico poi, il paraganglioma fornisce un modello oncogenetico peculiare che può fornire dati e meccanismi importanti anche per altre patologie tumorali. Infine, da un punto di vista clinico, il paraganglioma ha un’importante suscettibilità genetica, motivo per cui la scoperta del meccanismo che causa il tumore può offrire nuove strategie terapeutiche oltre la chirurgia (unica alternativa possibile per ora) non solo al paziente, ma anche i suoi familiari portatori della mutazione.
Qual è il virus che avete individuato come responsabile di questa neoplasia e quale il meccanismo che porta all’insorgenza della malattia?
Abbiamo individuato un herpes virus nel 100% dei paragangliomi analizzati. Il virus si va a integrare nel genoma della cellula ospite e ne altera profondamente il metabolismo.
Ci sono altre malattie nel cui sviluppo questo virus gioca un ruolo decisivo?
Sì, abbiamo trovato un virus simile a quello del paraganglioma anche nel tumore alla mammella e nel cancro al colon, oltre che in altri tumori del sistema nervoso. Stiamo lavorando ora per identificare, come abbiamo fatto nel paraganglioma, l’intero codice genetico di questo virus. In generale, inoltre, è bene ricordare che tante malattie sono ancora oggi definite “idiopatiche” quando non hanno una causa apparente, magari molte di queste malattie potrebbero essere causate da agenti virali ancora sconosciuti.
Quali prospettive di cura e diagnosi si aprono con questa scoperta? Si potrà curare il paraganglioma assumendo dei farmaci antivirali e quanto è verosimile la possibilità, in futuro, di avere un vaccino che prevenga l’insorgenza di questa patologia?
Attualmente il paraganglioma ha come unica strategia terapeutica efficace la chirurgia che tuttavia è spesso difficoltosa, a seconda della regione anatomica di esordio del tumore, e seguita da recidiva più o meno precoce. Una terapia sistemica con farmaco antivirale potrebbe essere un valido aiuto sia per prevenire le recidive sia nei casi intrattabili. Un vaccino sarebbe ancora più efficace dato che, a lungo termine, è sempre meglio prevenire che curare. In particolare nel paraganglioma si potrebbero vaccinare contro il virus i soggetti portatori della mutazione e quindi suscettibili a sviluppare il tumore.
Quanto tempo passa, più o meno, tra una scoperta come la sua e l’immissione in commercio di nuove terapie o di un vaccino?
Fortunatamente esistono dei farmaci antivirali efficaci e già approvati dalla comunità scientifica, quindi, una volta accertata la presenza del virus del paraganglioma, è ragionevole pensare a una strategia terapeutica che bersagli specificatamente il virus. Tuttavia, giustamente, i comitati etici sono molto cauti sull’introduzione di nuove terapie e sono necessari solidi dati preclinici prima che un trial clinico venga approvato. Se volessi azzardare una stima, ponendo che la ricerca proceda nella direzione giusta, nei prossimi cinque anni si potrà pensare a una terapia antivirale per il paraganglioma. Addirittura al Karolinska Hospital a Stoccolma è già stato approvato un trial clinico, guidato dal mio supervisor, la professoressa Cecilia Soderberg-Nauclèr, in cui tratteremo con farmaci antivirali 500 pazienti affetti da glioblastoma, il tumore più aggressivo del sistema nervoso centrale che attualmente ha una sopravvivenza di meno di due anni alla diagnosi.
La sua ricerca è finanziata dall’AIRC, ma le case farmaceutiche avrebbero interesse nel fare ricerca su una patologia così rara e commercializzare un vaccino per un tumore con una così bassa incidenza?
Con l’aiuto di enti come l’AIRC e altre fondazioni sensibili al problema mi auguro che si possa pianificare una strategia di sviluppo costruttiva e vantaggiosa per lo sviluppo di farmaci innovativi destinati ai pazienti affetti da paraganglioma. Comunque, la preoccupazione è più che lecita, ma considerando che virus simili potrebbero essere implicati anche in altri tumori, sono ottimista sull’interesse che un tale bersaglio terapeutico possa rappresentare per la commercializzazione di vaccini in futuro.
Infine, Lei è oggi uno dei quelli che potremmo definire “cervelli in fuga”, perché anche se la sua ricerca è finanziata da un’associazione italiana, sta svolgendo il suo lavoro all’Istituto Karolinska di Stoccolma. Come vive la sua condizione di giovane ricercatore italiano all’estero? La vedremo prima o poi tornare a lavorare nei laboratori italiani?
Ho lavorato sin dal terzo anno del corso di laurea in medicina all’Università d’Annunzio di Chieti sotto la supervisione del professor Mariani-Costantini e con i fondi AIRC, sono quindi molto legato e debitore al contesto di ricerca universitario e ai miei colleghi al Cesi per quanto ho imparato. So bene quanto la preparazione e la forma mentis conferite dall’università italiana siano valide e quanti professionisti talentuosi e capaci siano presenti nel nostro Paese, perciò la collaborazione con i miei colleghi sarà attiva e importante. La possibilità di proseguire la ricerca a Stoccolma si è palesata quando, di fronte a un problema scientifico complesso, abbiamo deciso di rivolgerci alla professoressa Soderberg-Nauclèr, esperta in questo campo, e iniziare una fruttuosa collaborazione con lei. Da lì mi sono classificato primo al prestigioso Clinical Scientist Traning Program al Karolisnka Institutet e mi sono definitivamente trasferito a Stoccolma. Il distacco dalla mia bella regione e dalla mia famiglia a volte mi rattrista, ma oggettivamente le possibilità di carriera e le condizioni lavorative sono di gran lunga migliori che in Italia. Il Karolinska mi ha perfino trovato un alloggio e ho uno stipendio che è più del doppio di quello corrispondente italiano. Per non parlare dell’ambiente internazionale in cui mi trovo immerso: l’istituto del Nobel attrae ricercatori da tutte le parti del mondo e solo una piccola percentuale di ricercatori è svedese mentre in Italia la quasi la totalità dei ricercatori è di nazionalità italiana e ciò la dice lunga, purtroppo, sull’incapacità del nostro Paese di attrarre cervelli al di fuori dei confini nazionali. Io credo che un rispetto e una fiducia maggiore nei confronti dei giovani ricercatori da parte delle istituzioni potrebbero facilmente cambiare questo fenomeno. Comunque, il fatto di avere collaborazioni con ricercatori di altri paesi europei e del mondo è estremamente positivo e di grande beneficio: la scienza non dovrebbe mai conoscere confini geopolitici, ma avere una dimensione internazionale e di beneficio per l’umanità intera.