GRAVINO AGOSTINONE – Chi eravamo
Chi eravamo
GRAVINO AGOSTINONE
di Erminia Mantini
Primi decenni del secolo scorso. Attorno al cippo della Colonnetta, a quei tempi posizionato proprio sul ciglio della Vestina, si raccoglievano le abitazioni degli Agostinone, legati da parentele più o meno vicine. In questo vivace, antico nucleo montesilvanese nacque Gravino Agostinone, primogenito degli undici figli di “zi Pitrucce”, capo riconosciuto, stimato e onorato da tutta la popolosa contrada. Le due importanti arterie, via Vestina e via Piceni, erano circondate da estesa campagna, cui allora era destinato il futuro lavorativo dei giovani. Gravino, invece, seguendo la sua indole desiderosa di nuovo, si sottrasse alla vita contadina, imparando il mestiere del pastaio. Si trasferì a Casalbordino e costruì pian piano buone competenze presso il “Pastificio Iannetti”, dove più tardi diventerà capo pastaio, assumendosi anche altre responsabilità. Fin d’allora manifestò inventiva e creatività: ideò un meccanismo per recuperare la massa residua dai condotti dell’impastatrice. Il sistema fu brevettato sì, a suo nome, ma in seguito venduto da altri in America.
Dopo la guerra tornò a Montesilvano e lavorò per molti anni nello storico “Pastificio Della Marca”, situato nel punto in cui dalla Nazionale si curva verso la Vestina. Anche qui profuse serietà e competenza come capo pastaio e si fece apprezzare per la fattiva collaborazione a tenere alte le sorti dell’azienda, soprattutto quando il Pastificio conobbe cali di vendita e le insidie della concorrenza. Nel frattempo aveva messo su famiglia e costruito materialmente, un po’ alla volta, la propria casa dietro alla farmacia Trisi: impastava … malta ed erigeva muri, facendosi aiutare nel trasporto dei mattoni dai bambini che ricompensava con le stecche di liquirizia di Menozzi!! Lì vive oggi la primogenita Adriana.
Sempre attento a “scrutare” i tempi, ebbe l’idea di aprire un’edicola di giornali, la prima della città, adiacente al distributore Shell, che allora era gestito da Galileo Speziale e da sua moglie Vienna Olivieri, figlia del popolare “Peppine d’Induline”!! Aveva realizzato con le sue mani il piccolo fabbricato dell’edicola, utilizzato inizialmente per la vendita di bevande. Affidò la gestione alla moglie, Giulia Censorio, e alle tre figlie, Adriana, Marisa e Manola. Per alcuni anni, quando era già vigile urbano, darà una mano anche il figliolo Sergio. Il giornale più venduto era Il Messaggero, seguito da Il Tempo e dal Corriere dello Sport. Al prezzo di 25 lire, il quotidiano veniva acquistato anche dai camionisti, mentre aspettavano il pieno di nafta, che durava circa mezz’ora, tanto era lenta l’erogazione!!
L’edicola ampliò gradualmente la sua offerta e accanto ai giornali comparvero giocattoli, articoli di cancelleria e … caldi sigilli di ceralacca per approntare i pacchi in partenza! Il sabato sera, poi, si animava in modo straordinario: si faceva la fila e si argomentava con toni accesi prima di compilare e di convalidare la schedina del Totocalcio! Fu il primo punto di gioco della futura città! L’edicola rifornirà gli studenti dei libri scolastici per anni, fino all’apertura della cartolibreria “Minerva”. Nelle vicinanze del sei gennaio, Adriana, erede dell’intraprendenza paterna, metteva in bella mostra tantissimi giocattoli, tra cui le spade, le bambole, le pistole a claps! I bambini potevano scegliere il giocattolo preferito, prenderlo, corredarlo di un bigliettino col proprio nome e inserirlo nel grande contenitore appositamente posizionato fuori. I genitori sarebbero poi passati a ritirare…la Befana!!! L’edicola di Gravino era un quotidiano punto d’incontro, dove si sostava volentieri per scambiarsi opinioni e raccontarsi, un piccolo salotto all’aperto: immancabile il dottor Donato Di Silvestre, appena arrivato da Città Sant’Angelo, don Pierino Del Pozzo, il dottor Renato De Flaviis, “medico della gente povera”, Alberto Di Blasio, il pastaio e, dalla vicina farmacia, col camice, si univa al capannello don Peppe o suo figlio Paolino!
Gravino era un bell’uomo, curato nell’aspetto, gioviale, autorevole e … pensoso! Tra il suo lavoro, l’occhio all’edicola e la prepotente creatività che gli teneva occupata la mente, si concedeva qualche partita a bocce, al bar della Colonnetta, con il caro amico Ferdinando Trave, con i fratelli, con il proprietario del bar, Amicone Guerino. Sempre fiero delle sue origini, volle lasciare lì un segno della sua laboriosità e della sua devozione, erigendo al Sacro Cuore di Gesù, una cappelletta in mattoni, che più tardi sarà sostituita dall’attuale nicchia realizzata dall’architetto Marco Volpe.
Intorno ai settant’anni andò in pensione, ma la pasta gli era rimasta nel cuore! Trascorreva il suo tempo presso la ditta Fratelli Fazzini, “lu ferrare”, in via Nazario Sauro, dove tra ferro, chiavi, martelli e aggeggi vari, iniziò a dare forma a un marchingegno che gli frullava in mente da anni: una catena di operazioni meccaniche che dall’immissione della farina portasse al piatto condito e fumante! Il complicato dispositivo diventava via via più grande e ingombrante, ma il desiderio di realizzarlo fu così potente che acquistò un grande garage dove trasferì ogni cosa. Da quel momento la sua giornata si consumava quasi totalmente in quel garage! Leggeva, si documentava, comprava pezzi e attrezzi, investendoci buona parte della pensione! I suoi consiglieri preferiti restavano i Fazzini, che a quei tempi, rappresentavano davvero l’eccellenza nell’attuazione di lavori in ferro e nella risoluzione di problemi. Il figliolo Sergio ci descrive sommariamente la composizione e il funzionamento della creazione paterna: << Un grande contenitore, sotto il quale erano delle trafile, da cui uscivano gli spaghetti; per ogni trafila aveva installato una specie di taglierino che ogni dieci secondi recideva dieci grammi di pasta. Gli spaghetti scendevano in contenitori di acqua bollente e, a cottura prefissata, venivano scaricati nello scolapasta e poi razionati nei piatti. In venti minuti si approntavano quaranta pasti, premendo solo un pulsante!! Mancavano sugo e formaggio >>. Gravino aveva già predisposto un altro pulsante che completava il piatto con il giusto condimento, ma non riusciva a … incatenare i due meccanismi. Intelligenza, tenacia e pragmatismo non bastavano a risolvere il problema. Prosegue Sergio: << Lo sollecitai ripetutamente a rivolgersi ad un ingegnere per non vanificare tanto lavoro e tanta passione; ma egli non volle, memore del suo primo brevetto e ancora amareggiato >>. Continuava caparbiamente a trovare una soluzione da solo. Un giorno Sergio invitò i suoi colleghi al garage per gustare gli spaghetti al sugo apparecchiati dal padre. Fu un successo. Savino Maggiore, allora corrispondente de Il Tempo, pubblicò un dettagliato articolo sull’invenzione di Gravino; la notizia fu riportata dopo qualche tempo sul settimanale Stop. Da quel momento dalla Germania, dal Giappone e, pressantemente, dalla Città della Domenica di Perugia arrivarono richieste di acquisto del macchinario. Ma Gravino, a 85 anni, preferì abbassare la saracinesca definitivamente e trascorrere gli ultimi dieci anni di vita nel calore della famiglia.