Myrvete: una storia di integrazione e successi
di Maria Letizia Santomo
“Una sera mio figlio mi ha chiesto come ho fatto ad avere successo. Non sapevo che rispondergli, perché dov’è il successo? Quale successo? Questa è la vita normale!”.
È una delle tante cose che mi ha raccontato la signora Myrvete Kopllani, detta Milva, quando ci siamo incontrate, in un caldissimo pomeriggio d’agosto, nel ristorante/tavola calda della figlia a Silvi.
Non si spiega questa domanda, Milva; io invece, ascoltando la sua storia, la capisco benissimo.
Perché la signora Milva non avrà vinto un Oscar, non avrà scoperto la penicillina, non sarà una top manager internazionale, ma la sua è comunque una storia di successo. Anzi, di successi, di grandi successi personali.
Se cerchiamo infatti sul dizionario la parola successo troveremo: “dal latino successus, avvenimento, buon esito”. E ancora “esito favorevole, buona riuscita”.
Ecco, gli avvenimenti della vita di Milva hanno avuto tutti esito favorevole: in questo senso ha ragione il figlio quando le chiede come ha avuto successo.
Si commuove diverse volte raccontandomi la sua vita nelle due ore in cui stiamo insieme. È forte la storia di questa signora minuta, se lo domanda spesso anche lei come abbia fatto un metro e cinquanta di donna ad affrontare tutto.
Milva è albanese, è vissuta in Albania, a Valona, fino al 1994, lì ha studiato, ha conosciuto suo marito, lì sono nati i suoi figli, una femmina prima e un maschio qualche anno dopo.
Ha sfidato la sua famiglia per sposare l’uomo che amava, è andata a vivere con lui nelle campagne intorno a Valona, e ha sempre lavorato per contribuire a mantenere la famiglia, anche con incarichi dirigenziali importanti in seno alla sezione locale del Partito Comunista, di cui ai tempi, in Albania, era buona norma essere tesserati.
Ha frequentato una scuola serale di agronomia, poi ha vinto una borsa di studio che per un anno l’ha portata a lasciare marito e figlia per stare a Tirana. Ha lavorato alla mensa dell’asilo del suo comune e in una fabbrica che cuciva uniformi per i militari. È stata segretario comunale e, anche grazie a questo e al ruolo che ricopriva nel partito, ha sempre avuto modo di relazionarsi con persone istruite e importanti. È una che ha studiato, Milva, è una che sa il fatto suo, una donna di mondo.
Tra il ’91 e il ’92 però cade il regime comunista che per decenni aveva governato l’Albania in un clima di terrore.
“Anni e anni di miseria”, dice Milva.
In Albania è il caos sociale e il collasso economico. Migliaia di disperati fuggono da quella situazione verso le nostre coste in cerca di una speranza, di un futuro migliore per se stessi e per le loro famiglie.
Milva dal ’91 al ’94 lavora per un’azienda tessile che produce uniformi per i militari e intanto, nel ’93, riesce a far partire per l’Italia la figlia, ormai quasi diciottenne, accompagnata dagli zii.
Lei rimane in patria con marito e figlio, ma il pensiero va spesso a quella figlia lontana, così, quando nel ’94 la ditta per cui lavorava la mette in cassa integrazione, la decisione è presa: si va tutti in Italia, la famiglia si riunirà.
Partono di notte da quello che Milva definisce porto ma che dal suo racconto sembra essere più un molo, un pontile. Si imbarcano su un motoscafo che al costo di un milione e mezzo di lek (non mi sa specificare il cambio in lire del tempo) li porterà in Italia a ricostruire qui la loro vita.
“Coprivo mio figlio con le giacche e i maglioni, perché faceva freddo e arrivavano gli schizzi del motoscafo”.
“Ha mai avuto paura quella notte?”, le chiedo.
“Mai!”
“Mai avuto paura, durante la traversata, che potesse andare storto qualcosa?”
“No, io pensavo solo a mia figlia, volevo riabbracciarla, questo mi dava la forza e il coraggio!”
E infatti tutto va bene, loro sbarcano in Puglia e arrivano a Silvi, ritrovano la loro ragazza, lei ritrova il fratello amatissimo di cui si era sempre occupata in Albania quando la madre era al lavoro e cominciano a rimettere insieme i pezzi qui in Abruzzo, aiutati anche dal parroco e dalle suore della chiesa del Villaggio del Fanciullo di Silvi.
Milva trova lavoro prima come baby sitter e collaboratrice domestica in varie case di Silvi e poi come addetta alle pulizie alla Clinica Villa Serena, dove lavora ancora oggi, dopo vent’anni.
Anche il marito trova un lavoro stabile, pian piano riescono a sistemarsi. Ottengono il permesso di soggiorno e la cittadinanza italiana.
Nel ’99 addirittura si sposano, sempre nella chiesa di Silvi, con rito religioso, poiché il matrimonio contratto in Albania era solo civile. Si giurano di nuovo amore eterno davanti a Dio, proprio pochi minuti prima che facciano lo stesso la figlia e il marito.
Oggi Milva è una donna realizzata e felice, sta bene, è fortissima, dice addirittura che il lavoro in clinica è la sua palestra, che quando ha dei dolori e va a lavorare le passano perché allunga i muscoli. Il marito invece lavora stabilmente presso la ditta Vallescura e la figlia gestisce, insieme al marito (il genero di Milva), il grazioso ristorantino sul lungomare di Silvi di cui sono proprietari e presso cui danno spesso una mano anche Milva stessa e il figlio maschio. Nonostante la stanchezza che a volte si fa sentire, a Milva piace aiutare genero e figlia nel ristorante anche come forma di gratitudine per ciò che questo ragazzo e la sua famiglia hanno fatto per la loro quando erano appena arrivati in Italia.
Le chiedo se sapeva l’italiano quando è arrivata qui e mi risponde che un po’ lo aveva imparato guardando “La Piovra” quando era in Albania. La voce del commissario Cattani di Michele Placido le è sempre rimasta nel cuore. La guardavano di nascosto però la TV in Albania, mettevano dei teli alle finestre per evitare che qualcuno vedesse e li denunciasse. Soprattutto lei, che era membro attivo del Partito.
Mi dice che non le manca la sua terra perché adora il nostro paese e perché se ha i figli con sé, ovunque sia, non le manca niente.
È una bella storia di perfetta integrazione quella di Milva e della sua famiglia, una storia, come ce ne sono tante in Italia, che deve essere un esempio positivo in questo momento in cui il dibattito su immigrazione e integrazione è così acceso.
Chiudo il nostro incontro chiedendole cosa prova quando vede i migranti che sbarcano a Lampedusa e cosa pensa di chi sostiene che non andrebbero soccorsi ma abbandonati al loro destino.
Si commuove, mi confessa che ci pensa spesso, anche quando non vede le immagini alla TV perché, in fondo, quella notte sul motoscafo è sempre nella sua mente e le dà forza. Non la spaventa più nulla, “se ho superato questo, posso superare tutto”. Per i migranti di oggi, quelli in arrivo dall’Africa, prova compassione, “scappano, hanno fatto scappare anche noi, non vengono a fare la bella vita. Siamo tutti umani, se non ci aiutiamo tra di noi?”
La lascio così, ci siamo dilungate talmente tanto che per oggi ha saltato quelle due ore pomeridiane in cui si riposa un po’. Mi dice che però non fa niente, per stavolta pazienza, è stata felice di raccontare la storia della sua vita, della sua famiglia e di come hanno ricominciato in un paese che, generosamente, ha dato loro l’opportunità di farlo.