L’angolo della poesia

a cura di Gennaro Passerini

In questo numero di luglio vi propongo la poesia del poeta Vittorio Di Ruocco, seconda classificata nella II° Edizione del Premio Letterario Nazionale di Giornalismo e Poesia 2024 “Il Grande Sorpasso”. Il poeta con la sua immaginazione vi farà vivere i momenti drammatici delle deportazioni degli Ebrei verso i campi di concentramento e spiegherà le motivazioni di tanto orrore e sofferenza.

Con le sue parole vi trasmetterà la profonda e riprovevole disumanità di uomini in divisa, di “demoni sghignazzanti” e divertiti verso altri uomini, innocenti, increduli del loro destino, indifesi di fronte a tanto immenso dolore. Il commento è affidato alla preziosa e sensibile penna della prof.ssa Palma Crea Cappuccilli.

IL TRENO PER L’INFERNO

 

E già partito il treno per l’inferno

per l’ultima stazione della vita

per un paese che si chiama oblio.

Seimila o forse più, siamo serrati

come animali in fetidi vagoni:

in mano la valigia del dolore

dove ogni oggetto vale una preghiera

cantata sottovoce alla speranza

al nostro Dio che ancora ci punisce

lasciandoci alle belve sanguinarie

segnati dalle svastiche sul petto.

 

È sempre notte in questo triste viaggio

gelato dall’inverno della steppa

che arde a trenta gradi sottozero

tra gli urli orripilanti dei soldati

e i lunghi pianti dei fratelli miei

ignari della sorte che li attende

nel maledetto inferno di Treblinka.

Io taccio la terribile certezza

riconosciuta dentro la menzogna

nel ghigno divertito del demonio

che con il mitra scava nel mio petto.

 

Non c’è la verità nella vendetta

nelle promesse lorde insanguinate

nelle parole pregne di viltà.

La Morte è a poche miglia ad aspettare

le anime nostre offerte in sacrificio

al delirante senso di potenza

di uomini sputati dal destino,

al truce desiderio di annientare

persino il più improbabile respiro

e farne fuoco, cenere e silenzio

 

Nel giardino di rose bianche di una scuoletta di Amburgo, dove vennero impiccati 20 bambini su cui era stato fatto ogni tipo di perverso esperimento, c’è una lapide con su scritto:

Qui sosta in silenzio

Ma quando ti allontani, parla”.

«Tutto quello che non si scrive si dimentica… Sì, bisogna scrivere subito, poi potrebbe essere troppo tardi», Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. (2007)

La poesia, che questo mese vi proponiamo, si inserisce a pieno titolo nel lungo elenco delle liriche dedicate all’Olocausto ed è pertanto uno degli strumenti più validi ed efficaci perché la memoria dell’orrore non cada nell’oblio. Contrariamente a quanto con vera angoscia sospetta l’autore, (il treno è già partito “per un paese che si chiama oblio”), noi ribadiamo che “l’armonia vince di mille secoli il silenzio”, “finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane” (Foscolo, Sepolcri), purché la memoria che ci proponiamo di trasmettere non sia di carattere soggettivo, emotivo o sentimentale, ma etica, educativa, anche se e a volte dolorosa e traumatica.

Chi scrive questa poesia sa: non perché abbia vissuto quell’esperienza, guardando in faccia il Male, ma perché ha letto le testimonianze, se pure rarissime (a Treblinka non ci fu quasi nessun sopravvissuto, solo una ventina su due o tre milioni di assassinati):  o quelle dell’ebreo polacco, Jankiel Wiernik, salvo solo perché utile alle belve come falegname  o il racconto delle disumanità sadiche e  indescrivibili,  raccolte in un vero e proprio reportage nei libri neri dell’antisemitismo di Vasilij  Grossman (1905-64), in particolare L’inferno di Treblinka.

Chi scrive prova a immaginare. E immagina di trovarsi su un treno, uno dei tanti treni europei utilizzati dalle “bestie sanguinarie” come veicoli di morte per mandare milioni di Ebrei allo sterminio. Proprio così, “gli uomini sputati del destino” le “belve sanguinarie” “segnati dalle svastiche sul petto”, stravolgendo ogni regola sociale, umana e naturale, avevano trasformato persino questo veicolo, simbolo di progresso, movimento, dinamismo, speranza, unione tra i popoli, metafora stessa della vita, in un veicolo di morte.

Chi scrive si chiede anche il perché di questo orrore e cerca una qualche risposta plausibile, forse “il nostro Dio che ancora ci punisce”, richiamandosi a una antica maledizione sugli Ebrei, definiti un popolo di “assassini, nemici di Dio, avvocati del Diavolo (San Gregorio di Nazanzio)” “per il loro deicidio non si è trovato mai il perdono” “dispersi in schiavitù per sempre”Dio odia gli Ebrei, li ha sempre odiati “(San Giovanni Crisostomo). I padri della Chiesa non hanno reso certo un buon servigio a questo popolo ancora oggi dannato.

Treblinka non era un normale campo di concentramento, come Dachau o Buchenwwald, dove si sarebbe anche potuto lavorare e forse sopravvivere, ma uno sterminificio, creato per la “soluzione finale”.

A Treblinka non venivano alloggiati prigionieri.  Non le file di baracche brulicanti di disperazione. /Non c’era quell’umanità dolente /con la casacca sformata, /il berretto di tela sul cranio rasato, /con lo sguardo vuoto /come nelle foto che ci sono state tramandate. /non c’erano sopravvissuti. / non c’era la selezione tra salvati e persi, tu di qua e tu di là.  /non il numero tatuato sul braccio.

A Treblinka, no. Si andava solo per morire! (Da un articolo di Jacopo Giliberto)

Il campo di Treblinka fu organizzato e costruito sul modello di un mattatoio. Lì “come animali in fetidi vagoni” i prigionieri venivano spinti nella fretta e nelle bastonate verso un corridoio buio e senza uscita, un “camminamento recintato”, “il tubo”, che portava direttamente nelle camere a gas camuffate da locali doccia.

Non si vede il cielo in quel corridoio, tra due steccati altissimi, con un andamento curvo tale da non rendere visibile dove si andasse: “è sempre notte in questo triste viaggio”. Veniva negata a quegli esseri umani, come agli animali senza nome e senza identità, la consapevolezza di ciò che stava per accadere “tra lunghi pianti dei fratelli miei, ignari della sorte che li attende”, senza dare il tempo di pensare, sempre spinti, sempre avanti, “tra gli urli orripilanti dei soldati”, “Nel ghigno divertito del demonio”.

A Treblinka arrivavano migliaia di persone al giorno, “seimila o forse più siamo serrati” e, nel giro di poche ore, venivano uccise tutte e tutte sepolte o bruciate, vittime sacrificate “al truce desidero di annientare/persino il più improbabile respiro, e farne fuoco cenere e silenzi”.

L’autore lascia larvatamente trapelare come in quel luogo, si perpetrasse l’ennesima beffa delle bestie sanguinarie, nelle “promesse lorde insanguinate, nelle parole pregne di viltà”. “La terribile certezza, riconosciuta dentro la menzogna”

Alla banchina dove si fermava il treno, infatti, era stata allestita una finta stazioncina, sembrava una graziosa stazioncina di campagna, con falsi tabelloni, orari falsi, con una falsa biglietteria e un falso controllore che chiedeva persino il biglietto. Tutto falso! Un grande orologio sulla facciata indicava un tempo fermo, sempre lo stesso, sempre le sei in punto. C’era anche un’orchestrina di musicanti in giacca e camicia, che accoglieva i prigionieri e suonava sempre la stessa canzoncina drei lilien. (Tre gigli)

A rendere verosimile la diabolica beffa gli altoparlanti urlavano che era una sosta intermedia, di servizio”, per rifocillarsi, e poi proseguire il viaggio verso i campi di lavoro, ma presto, presto, presto, bisognava muoversi! Il beffardo teatrino della morte non poteva fermarsi!

La Morte è a poche miglia ad aspettare”,

Treblinka è stato attivo per tredici mesi e, in quel lasso di tempo, non c’è stato giorno senza che almeno uno o due treni arrivassero alla stazione carichi di prigionieri; si stima che in quei tredici mesi tre milioni e mezzo di persone vi abbiano perso la vita.

Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere

È vietato morire! (Da La paura)

Un urlo di dolore: è la voce disperata di Eva Picková (1929-43), morta come migliaia di altri ragazzi.

Bene ha colto questo urlo il grande Salvatore Quasimodo:

Sulle distese dove amore e pianto

marcirono e pietà, sotto la pioggia,

laggiù, batteva un no dentro di noi,

un no alla morte”. (Auschwitz)

Salvatore Quasimodo. (1901-68)

Sui tanti bambini morti a Treblinka in modo atroce, non si trovano parole, manca il respiro al solo pensiero.

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