Partecipazione e libertà
di Marco Tabellione
Che la nostra società sia divisa in classi è una verità ancora evidente, le classi vengono tuttora individuate in base al censo e distinte per mezzo di livelli gerarchici. Indubbiamente rispetto alle prime fasi della civiltà industriale si è assistito a un livellamento dei poli sociali, e dal punto di vista degli stili di vita e anche del benessere minimo il dualismo delle classi sembra essersi esaurito. Oggigiorno non ha più senso parlare di una classe borghese e di una classe di lavoratori o operaia, né ha più senso parlare di proletari opposti a possessori dei mezzi di produzione. In verità esiste ormai un’unica classe borghese, che si sta tra l’altro mondializzando, perché lo stile di vita ormai si è globalmente equiparato, e tende a un livellamento genericamente tardo-borghese.
Questa unica classe, tuttavia, oggi tende comunque a differenziarsi, soprattutto per livelli di reddito, e ultimamente la crisi ha divaricato le distanze tra ricchi e meno ricchi. Insomma, il livello del benessere è aumentato per tutti, ma permangono da un lato risacche di povertà ed emarginazione, dall’altro minoranze privilegiate, alcune delle quali conservano posizioni di prestigio e potere o giungono a conquistarle. È vero che negli ultimi anni si è assistito alla diffusione di movimenti i quali hanno cercato di portare a livello gestionale forze nuove, esponenti che per la prima volta si sono trovati in posizione di preminenza. Ma va anche detto che il ricambio non ha significato una nuova situazione di autentica cogestione. Continua dunque a mancare una reale partecipazione alla gestione della cosa pubblica e si assiste sempre alla creazione di una dicotomia tra governanti e governati. Se, come sosteneva Giorgio Gaber nella sua celebre canzone, l’autentica libertà è partecipazione, bisogna notare che questa reale partecipazione è continuamente preclusa e affidata esclusivamente alla forza del singolo individuo. Quello che manca, cioè, è un sistema che sia partecipativo e che garantisca davvero una gestione pubblica e non individuale della cosa pubblica.
Affinché si abbia dunque una situazione di reale democrazia dovremmo iniziare a pensare in termini di ridistribuzione del potere. Dalla gestione alla cogestione, sembra che debba essere questo il passo e la strada da percorrere. Riflettiamo: cosa da sempre ha impedito questo passaggio che il reclamo della libertà fin dai tempi dell’Illuminismo avrebbe dovuto determinare o comunque far auspicare? Indubbiamente l’argomento migliore a difesa dell’esercizio di un potere concentrato, per la gestione dell’organizzazione civile, è l’idea che essa, l’organizzazione, ha bisogno di direttive e decisioni pronte e immediate, le quali possono venire solamente da individualità o comunque centri di potere, e non da collettività. Nell’antichità mesopotamica la comparsa di figure centrali come il gran sacerdote o il re coincise con il progredire dei lavori di canalizzazione delle acque e dunque delle esigenze di direzione delle opere e coordinamento. Così il rischio nella lentezza delle decisioni da prendere svaluterebbe l’idea stessa della compartecipazione globale alla gestione delle decisioni e del comando.
Si pensi alla critica che viene mossa al sistema italiano del bicameralismo perfetto, considerato come una soluzione lenta e farraginosa. Evidentemente, però, non si riflette abbastanza sul fatto che un controllo diviso fra due assemblee garantisce maggiore trasparenza, maggiore attenzione nella promulgazione delle leggi. Spesso abbiamo trovato nel passato questo sdoppiamento del potere a fini di reciproco controllo, nella Roma repubblicana, ad esempio, esistevano due consoli, ed erano molte le cariche doppie. In ciò, poi, il sistema italiano si mostra indicativo: si pensi all’esistenza di un presidente della Repubblica garante super partes, e una figura di presidente del Consiglio, laddove in molte democrazie le due cariche sono raggruppate in una.
Ma l’idea forse utopica che si va ventilando va molto al di là del sistema Italia e della sua Costituzione (per quanto Benigni l’abbia giustamente definita la più bella del mondo). Si sta infatti argomentando su molto di più, sulla possibilità di differire per un attimo l’efficienza delle situazioni e delle organizzazioni (d’altra parte si è visto che proprio l’estrema efficienza, ad esempio tecnologica, sta provocando danni irreparabili al pianeta), dunque mostrarsi propensi a sacrificare qualcosa in termini di organizzazione e consentire una ridistribuzione capillare delle possibilità gestionali partendo dalle istituzioni basilari (municipi, quartieri, rioni).
Tutto ciò sarebbe bello e auspicabile, senonché si ha l’impressione che per giungere a una tale ridistribuzione del potere, o addirittura alla sua sostituzione con forme di equa collaborazione, si avrebbe bisogno di cambiamenti epocali, in grado di investire non solo le istituzioni e le organizzazioni, non solo le città e i popoli, ma financo gli individui e le loro coscienze. David Thoreau nella sua opera Disobbedienza civile, un classico ottocentesco della non violenza che in parte ha aperto la strada a Gandhi e Martin Luther King, esordiva: “Io accetto di tutto cuore il detto: il governo migliore è quello che meno governa, e vorrei che fosse attuato il più rapidamente e sistematicamente possibile. Messo in pratica, si riduce, in ultima istanza, a questa affermazione, nella quale ugualmente credo: il governo migliore è quello che non governa affatto, e quando gli esseri umani saranno pronti, quello sarà il tipo di governo che essi avranno”.