La friulana d’Africa – Parte quinta – Quaggiù il cielo è più vicino
La friulana d’Africa – Parte Quinta di Dieci
Quaggiù il cielo è più vicino
di Emilio Pirraglia
Gli zaini erano più pesanti del previsto quando li presero dal nastro bagagli nell’affollato aeroporto Léopold Sedar Senghor di Dakar. L’odore di umanità che si respirava lì dentro schiaffeggiò i due nuovi arrivati. Cambiarono i soldi, poi si diressero verso l’uscita, per cercare un taxi che li avrebbe condotti all’albergo che avevano prenotato per una sola notte dall’Italia. Appena fuori furono assaliti da nugoli di tassisti o presunti tali, che promettevano di accompagnarli dove desideravano. Si rivolgevano a loro in francese e questo non aiutava i due avventurieri, che afferravano poco della valanga di parole dette tutte insieme da un mucchio di persone insieme. Si affidarono ad uno che sembrava il più silenzioso, in auto trovarono un altro accompagnatore, che li salutò appena. Attraversarono la città, che dava l’impressione di un’accozzaglia di lamiere, mattoni, strade sterrate, rotonde e piccole costruzioni più solide, che si stringevano intorno a loro nel buio della notte. Alex e il sergente non scambiarono una parola durante tutto il tragitto, fin davanti l’albergo. Avevano tutti e due gli occhi sgranati, cercando di capire se quello che vedevano fuori dal finestrino fosse la realtà o un film di guerra che davano alla tivù. Scesero dal taxi e pagarono la corsa senza un fiato. Bussarono alla porta di quello che avevano indicato essere il loro albergo, anche se non aveva né scritte né insegne. Li accolse una ragazza sorridente che parlava in italiano con loro grande sollievo. Senza alcun bisogno di registrazioni e quant’altro si ritirarono nella piccola stanza che sapeva di stantio, con tre letti e un bagno, dal quale proveniva un odore di acqua imputridita. I due amici, esausti, poggiarono in terra gli zaini e cercarono subito le prese per ricaricare i cellulari, che li avevano abbandonati già da qualche ora. «Che topaia!» esclamò Alex dando un’occhiata intorno, notando le inferriate alle finestre e sedendosi sul letto molliccio. «Almeno un posto che sembra sicuro per dormire, dopo quello che abbiamo visto là fuori» gli fece eco il sergente chiudendo a chiave la porta della camera. «Là fuori sembra un disastro. – Continuò con voce preoccupata Alex – Non mi aspettavo tanta desolazione». L’amico lo guardò serio: «Ho avuto l’impressione di trovarmi in Afghanistan». Alex si mise a sedere sul letto: «Se devo essere sincero, non sono più tanto convinto che questa Africa sia stata la scelta giusta». L’altro gli sorrise: «Be’, non buttiamoci giù. Siamo appena arrivati, dopo che avremo dormito vedremo la situazione più chiaramente. Alla luce del sole le cose sono meno terribili di quello che sembrano – continuò alzandosi dal letto per andare a pisciare con la porta aperta. – Sopra la tenda della doccia c’è uno scarafaggio grosso come la mia mano».
Il mattino seguente, dopo la colazione a base di baguette, burro e marmellata, uscirono in perlustrazione. La proprietaria dell’albergo aveva detto che potevano andare a visitare la spiaggia e magari mangiare qualcosa da quelle parti. Uscirono nella abbacinante luce del sole. Camminarono a lungo su un marciapiede scalcinato, passando davanti a baracche costruite sulla spiaggia. Videro in mare alcuni ragazzi che facevano surf. Girovagarono avanti e indietro, sentendosi addosso gli occhi di alcuni muratori che stavano costruendo lì vicino, e di tutti i passanti, che sembravano guardarli di traverso. Una signora dalle forme abbondanti li invitò a mangiare nel suo ristorante sulla spiaggia, che consisteva in una baracca maleodorante, piena di mosche, con alcune sedie di plastica che una volta dovevano essere bianche, qualche padella sporca in un angolo e un fornello a carbone (i due in seguito avrebbero mangiato in topaie molto peggio di quella). Continuarono a camminare e scorsero una tabella scritta in italiano che recitava “Pasta e pizza”. Sembrava un’oasi nel deserto o la mamma che ti viene a prendere a scuola dopo il primo giorno di elementari in una città nuova, dove non conosci neanche un bambino. Alex dichiarò subito di voler mangiare là. L’ex militare annuì reticente, ammettendo una proclamazione di sconfitta il fatto di voler mangiare in un ristorante italiano. Gli sembrava come di voler cercare una sicurezza a tutti i costi, che lo avrebbe allontanato per un po’ da quella zona sconosciuta che aveva tutta l’aria di essere ostile. Li accolse in una ampia veranda fatta di pali di legno, tetto di paglia e solaio di sacchi di iuta, un’alta signora massiccia, con i capelli a caschetto tinti di biondo cenere. Chiese loro: «Italiani?» con forte accento friulano. Il sergente le spiegò che erano arrivati la sera prima. Mangiarono dell’ottimo pesce alla griglia, che ricordava l’orata ma aveva la pelle rosa e d’argento. Bevvero un paio di litri d’acqua considerando tutto il sudore che avevano buttato in quella mattinata da vaganti. Si trattennero a lungo a parlare. Alex si accese un buon numero di sigarette dopo il caffè. Pagarono il conto e la signora suggerì di camminare lungo la spiaggia. A mezz’ora di cammino avrebbero trovato il mercato del pesce, che prometteva essere uno spettacolo che valeva la pena vedere. Consigliò anche di coprirsi la testa con qualcosa: il sole era molto forte in quella zona e camminando a capo scoperto si sarebbero presa una bella insolazione. Ne era sicura perché era capitato al marito. Alex le chiese come mai si trovasse in Senegal. Spiegò di aver aperto da poco il ristorante sulla spiaggia di Yoff, e che suo marito era in giro per lavoro. Un odore acre venne da nord, si voltarono verso quella direzione, alcuni ragazzi stavano bruciando degli pneumatici poco lontano. La signora storse il muso e scosse il capo, e disse che quella era l’Africa, dove tutti facevano quello che gli pareva, buttavano immondizia ovunque e potevano persino bruciare pneumatici sulla spiaggia vicino ai ristoranti dove la gente mangiava. Ci doveva stare pure un motivo perché non si erano evoluti come gli europei. Lei non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione, ma i debiti che aveva accumulato in Italia l’avevano costretta a fuggire via. Dava l’impressione di un animale in uno zoo, costretta a vivere in un posto che non era il suo e che non sentiva come suo. Si stava abituando alle zanzare, alla mancanza di acqua potabile ed energia elettrica, ma faceva fatica ad abituarsi agli africani. «Sai perché i neri non faranno mai un cazzo?» chiese con una domanda piena di retorica, a bruciapelo. Alex scrollò le spalle. Il sergente bevve un sorso d’acqua guardando nel vuoto. «Perché hanno tutto e non ci arrivano» concluse soddisfatta della sua teoria. «Il mare è pescoso, hanno zone fertili, hanno risorse naturali, eppure vivono nella merda, senza una regola». Arrivò a salutarci un ragazzino di undici o dodici anni, suo figlio. Era un bambino grassoccio, che sorrise ai due stranieri proclamando orgoglioso che stava imparando a fare surf. Alex gli chiese se gli piaceva stare lì e lui rispose di sì, che si stava ambientando, anche se qualche volta lo minacciavano per il fatto che fosse bianco. Disse anche che aveva perso ventitré chili da quando stava in Africa. Il sergente cercò di immaginarsi come doveva essere quando stava in Italia.
Fine Parte Quinta di Dieci
Scrivetemi: emilio.pirraglia@tin.it