LA DISFATTA DI CAPORETTO

Ad oltre un secolo di distanza (108 anni per la precisione) la battaglia di Caporetto viene ricordata, ancora oggi, come la pagina più nera dell’esercito italiano, al punto che quella località è diventata sinonimo di disfatta generale.

Oggi non molti sanno che questo paese non è più in Italia: appartiene alla Slovenia e si chiama in quella lingua Kobarid. Pur trovandosi ai confini con la nostra terra (a 27 km da Cividale, a 44 da Udine), è abitata da 4237 sloveni, ma non vi risiede alcun italiano, anche se per essa morirono migliaia di nostri connazionali. Dopo la fine della guerra (1918), l’Italia la occupò e quei pochissimi compatrioti che conoscevano l’italiano furono “slovenizzati”.

Fatta questa premessa, passiamo ai fatti che intendiamo narrare. La notte del 24 ottobre 1917 il nostro esercito, alle 2 in punto, dovette fronteggiare il massiccio attacco delle forze austro-ungariche, alle quali si sarebbe aggiunto subito dopo l’appoggio dei tedeschi. Era una notte buia, piovosa e con tanta nebbia, che rendeva difficile ogni movimento ed i nemici attaccarono all’improvviso la linea della 2ª armata, tra Tolmino e Caporetto. Colti di sorpresa, i militari italiani furono costretti a ripiegare fino al Piave, con la 2ª e 3ª armata, per ben 150 km. Ovviamente il cedimento dei nostri, stando alle dichiarazioni dei capi militari, fu visto come una colpa imputabile ai soldati, incapaci di sostenere il pressing dei nemici. La disfatta italiana, perché di disfatta di trattava, causò quasi 300 mila prigionieri e 350 mila sbandati; le perdite umane – questo l’aspetto più tragico – furono 11 mila e 600 unità.

La ingloriosa ritirata, dopo la battaglia, durò dal 24 ottobre al 19 novembre e in quei giorni si verificarono episodi di disobbedienza e di panico. Addirittura molti nostri fanti si arresero al nemico, altri consegnarono le armi. Furono momenti drammatici, che a posteriori trovarono una spiegazione come lo sbilanciamento difensivo italiano, le novità tattiche d’assalto dell’esercito austro-ungarico, il logorio delle truppe impiegate già in undici precedenti battaglie, l’arrivo al fronte delle divisioni germaniche, spostate dal fronte russo a quello occidentale, e non ultimo la colpa di Badoglio, resosi irreperibile nei momenti decisivi. Su tutti, le decisioni o pretese assurde del generale Luigi Cadorna, convinto assertore che bisognava vincere ad ogni costo sacrificando, se necessario, vite umane, con una mentalità da vecchi condottieri di fine Ottocento. Molto diversa invece quella che animava il generale Diaz, pronto a valutare l’opportunità di impiegare le sue truppe all’assalto.

Al momento della debacle dell’esercito italiano, il presidente del consiglio in carica era Paolo Boselli, che si dimise, sostituito da Vittorio Emanuele Orlando. E fu lui che davanti alla drammaticità degli eventi decise sic et simpliciter la destituzione di Cadorna, al termine dell’incontro del 6 novembre 1917 svoltosi a Rapallo. In sostituzione fu chiamato il generale Armando Diaz, che cambiò le tecniche di guerra, prima fra tutte l’astensione del comando supremo da qualunque iniziativa, lasciando autonomia decisionale ai comandanti subalterni, i quali conoscevano bene la reale situazione. Altro torto del generale Cadorna (aveva imputato l’esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi uomini) era stato l’inasprimento delle pene per i soldati che avessero abbandonato il posto di combattimento, punibili con la fucilazione; come dire: si viveva in un regime di terrore.

Guidato dal generale Diaz, una volta riorganizzato, l’esercito italiano resse all’urto dei nemici riconquistando i 150 km in cui erano arretrati fino al Piave.

Quando il 4 novembre 1918 fu celebrata a Vittorio Veneto la vittoria delle forze italiane (unitamente a quelle della Triplice Intesa con Gran Bretagna, Russia, Francia ed Usa), la nostra Patria fu tempestata di manifesti, che confermavano il successo militare. Ed il famoso bollettino “firmato Diaz” creò non pochi equivoci e fraintendimenti. Molti bambini nati in quei giorni furono battezzati con il nome “Firmato”, in omaggio al generale vittorioso. In alcuni paesi il parroco accettò la richiesta delle mamme, che avevano scambiato il verbo “firmato” con il nome del generale Diaz. In altre località invece si rimediò all’errore, battezzando “Firmino” il neonato.

Le operazioni militari ebbero termine per noi con la firma a Villa Giusti (Padova) dell’armistizio fra l’impero austro-ungarico e l’Italia. L’atto fu firmato alle 15.20 del 3 novembre 1918 (il giorno in cui gli Italiani entrarono vittoriosi a Trento) ed entrò in vigore il successivo 4 novembre.

Un secondo aneddoto, di natura ben diversa, riguardò il generale Cadorna, che in un momento di sconforto maneggiò la pistola, deciso a farla finita sopraffatto dal rimorso di tanti giovani mandati a morire per le sue decisioni. Si disse che qualche attimo prima di suicidarsi, gli fosse apparso Padre Pio e lo avesse distolto da quell’assurdo proposito.

La guerra, che aveva causato complessivamente circa 15 milioni di morti, ebbe termine il giorno 11 novembre 1918 con l’armistizio sottoscritto nel famoso vagone ferroviario di Compiegne (in Francia) fra gli alleati e l’impero austro-ungarico, che costringeva la Germania a pagare i danni di guerra.

Ma perché era scoppiato il conflitto? Una risposta potrebbe essere che il sistema delle relazioni internazionali non era organizzato in modo da risolvere le controversie in modo pacifico e locale.

A conclusione del nostro discorso, tornando sul dramma di Caporetto bisogna riconoscere che resta vivo più che mai il ricordo della nostra disfatta; per essa persero la vita tanti giovani, sacrificati per l’assurda caparbietà di alcuni vertici militari.

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