Serve una costituente per una nuova scuola
di Pasquale Sofi
Oggi l’Italia vive il tempo di una propaganda politica frenetica, utile per imbellettare il momento, ma priva di una visione concreta del domani, come se il traguardo agognato non fosse il benessere della comunità, ma l’acquisizione di un potere fine a sé stesso, utile soltanto ad illudere i cittadini che le scelte dei decisori siano le più utili e necessarie. Tutto ciò accade mentre i social continuano a produrre leoni da tastiera seriali e a portare all’attenzione di una moltitudine sempre più vasta di cittadini problematiche che però nella gran parte dei casi avrebbero bisogno della consapevolezza di un’informazione più approfondita e curata.
In questo periodo di conseguenti illusioni, vere o false che siano, viene affrontata, con grande superficialità e non velata ideologia, l’ennesima rivisitazione di un’istituzione che dovrebbe essere la più importante di una comunità, quella che, se organizzata e messa in condizione di funzionare a dovere, potrebbe garantire un futuro più sereno e produttivo ai nostri giovani negli anni a venire: LA SCUOLA!
Le informazioni che circolano su nuove indicazioni generali o programmi che dir si voglia, confermano ancora una volta la mancanza di idee serie e concrete su come intervenire sulle criticità che oggi la affliggono. Si parla genericamente di una disfunzione generalizzata o del suo improduttivo funzionamento, mentre nessuno rimarca le banalità sempre più spesso pronunciate dal suo Ministro pro tempore. Sarebbe necessaria una lunga e profonda riflessione bipartisan della politica corrente per ridisegnare, ex novo, una scuola che abbia una direzione di senso e sia capace di incidere sui bisogni formativi anche e soprattutto a livello europeo. Proprio per allinearsi al quadro europeo delle qualifiche (EQF), e alla luce della carenza di bambini stante la crisi delle natalità, sarebbe arrivato il momento di portare l’insegnamento obbligatorio pre universitario dopo la scuola materna, anch’essa da rendere obbligatoria, a 12 anni eliminando il primo dei cinque anni dell’ex scuola elementare (è noto che le ultime metodologie, ormai da tempo conclamate nella scuola primaria, consentono ai giovani allievi di imparare a leggere e scrivere già nei primi sei mesi di attività, contro i due anni di un tempo). Ancora oggi, sebbene sia trascorso oltre un secolo, nessuno tiene conto che l’Europa traduce in 12 anni l’equivalente del nostro percorso gentiliano, mentre di tanto in tanto viene partorita dal genio di qualche ministro, sic et simpliciter, la sperimentazione di una scuola superiore in quattro anni. E mentre per l’Europa sono importanti per ciascuno dei dodici anni di frequenza le competenze in uscita, in Italia queste esistono solo nei regolamenti sugli esami di stato da quasi trent’anni…. e solo sulla carta.
La scuola ha bisogno di essere ripensata da un team di esperti veri e non presunti, nonché super partes, perché non appartiene né alla destra nÈ alla sinistra e tantomeno ai sindacati (CGIL, vera palla al piede della qualità del servizio, in testa), ma dovrebbe esistere per favorire la crescita culturale, civile e sociale dei nostri giovani attraverso un processo di apprendimento che vada ben oltre le sterili conoscenze cui la rutine ci ha “gentilianamente” abituati, e che arrivi ad evidenziare, accanto alle conoscenze acquisite, abilità e competenze tali da consentire ai nostri giovani di trasferire i loro saperi in contesti operativi diversificati, superando una volta per tutte la sterile mediocrità delle conoscenze teoriche, perseguite ancora oggi per privilegiare saperi agiti. L’ignoranza, anche di tanti sedicenti esperti, è tale da concepire la competenza di esclusivo appannaggio dell’istruzione tecnica o professionale.
Sarebbe pertanto ora di dire basta a un’istituzione che procedendo per inerzia ripropone meccanicamente riti e processi abitudinari, utili solo a mantenere un carrozzone improduttivo che non assolve minimamente il suo compito, disconoscendo sistematicamente, e senza controllo alcuno, i bisogni formativi che gli assi culturali e l’EQF hanno ben definito. Entrambi questi ultimi sono prodotti culturali di emanazione europea. Dell’EQF (il quadro delle competenze in uscita, decisamente importante per l’equiparazione dei titoli di studio in Europa) è interessante l’aggiornamento del 2017; il suo Europass sta diventando, infatti, uno strumento sempre più utile per i diplomati.
Sarebbe opportuno domandarsi quale sarebbero le finalità della scuola che oggi frequentano i nostri giovani. Perché lo Stato dovrebbe impegnare risorse ingenti per farla funzionare?… I docenti sono in grado di assolvere al loro compito attraverso l’offerta di soluzioni didattiche efficaci, corredate da strategie innovative e motivanti in linea con i bisogni dei tempi? E soprattutto le università, sono in grado di preparare didatticamente i docenti? Come può l’università italiana preparare l’utenza su materie che non conosce? Credo che gli atenei preparino, nel migliore dei casi, degli esperti disciplinari piuttosto che docenti, perché i neo laureati arrivano nelle classi sprovveduti di tecniche didattiche funzionali al lavoro da svolgere. Tanti anni fa nacque la SISS; un’idea ministeriale che, recuperando le migliori pratiche e i docenti delle scuole che le avevano progettate e poste in essere, aveva avviato un processo di emancipazione didattica bruscamente troncato dalla ministra Gelmini… e ancora oggi non se ne comprendono le ragioni…
Riesce la scuola a individuare negli allievi inclinazioni e talenti (obiettivi essenziali per avviare chiari percorsi di orientamento)? Quali metodologie e supporti didattici è in grado di utilizzare per individuare quali siano le tipologie di intelligenze (secondo Howard Gardner) che già i bambini cominciano ad evidenziare? Sono queste le riflessioni e le domande che bisognerebbe porsi! Se negli anni cinquanta-sessanta del secolo scorso il boom dei diplomati aveva colmato un bisogno di quel periodo storico (la figura di un geometra, di un ragioniere o di un perito, per non parlare del maestro, emergeva in una moltitudine di semianalfabeti in gran parte in possesso della sola licenza elementare), oggi quell’asticella culturale nella catena dei bisogni si è decisamente alzata senza però il dovuto accompagnamento della necessaria qualità anche e soprattutto pratica.
Nella scuola di qualche decennio fa, gli ispettori centrali garantivano un decente livello di qualità didattica, operando a stretto contatto con gli apparati ministeriali e coadiuvati dagli ispettori periferici che supportavano a livello locale i fermenti didattici emergenti, e in particolare quelli indotti dalle sperimentazioni. Queste ultime, in particolare quelle non assistite, erano l’unica forma, rapsodica e spesso dilettantesca, di ricerca didattica autonoma nelle scuole. In quegli anni una grande contributo alla didattica veniva dato anche dalle risultanze del gruppo ricerca dei Salesiani. Le sperimentazioni furono cancellate sempre dalla Gelmini e gli ingenti tagli all’istruzione furono utilizzati dall’allora ministro Tremonti in altri comparti. Oggi la didattica è quasi sconosciuta ai più e le scuole sono ben lontane dal fare ricerca; si perde tempo in inutili consigli di classe in presenza di genitori quando, grazie al registro elettronico, il loro contributo risulterebbe essere spesso superfluo e si potrebbe utilizzare al meglio quel tempo dedicandolo alla progettazione e alla ricerca. Ma ciò sarebbe compito dell’organizzazione cui farebbe capo il Preside, figura essenziale e necessaria se si va a configurare, oltre che come rappresentante legale della scuola, come leader didattico chiamato a coordinare (come lo era un tempo il direttore didattico per la scuola elementare) tutte le operazioni inerenti alla formazione dei giovani.
Il diritto all’apprendimento degli studenti deve essere garantito dalla qualità dei processi formativi e di questi dovrebbe essere responsabile il Preside, con annessi poteri e conseguenti responsabilità verificate da serie e concrete valutazioni, che non siano però vanificate da fumosi percorsi burocratici. Ma se tale figura deve servire solamente per curare l’organizzazione e il marketing, senza avere alcuna responsabilità di indirizzo e di risultati, allora diventa quasi superflua. Paradossalmente, sarebbe meglio che il capo d’Istituto fosse una figura amministrativa (il DSGA per es.) e non un sedicente dirigente, tra l’altro spesso incapace di proporre o leggere tra le pieghe un bilancio; come spesso accade nelle scuole di più complessa gestione (per gli addetti ai lavori quelle citate al comma 3 dell’art. 27 del dpr 417/74).
Ultimamente si preannuncia una valutazione del capo di Istituto (e sarebbe anche ora), ma è necessario che costui abbia poteri adeguati; (ad es. quello della valutazione del personale; qualsiasi altra struttura o figura deputata a tale compito sarebbe meno idonea), accompagnati da una serie di contrappesi per evitare soprusi e ridimensionare manie di grandezza.
Alla luce di tutto ciò, si configura quale gravissimo errore politico aver cancellato integralmente, senza un’opportuna e necessaria revisione, la Buona Scuola. Mentre ai tempi del covid si è addirittura scambiata per didattica una forma di comunicazione a distanza: l’ormai famosa DAS. Una ulteriore evidente dimostrazione di incapacità didattica è rappresentata dalla cosiddetta geostoria; mai affrontata sia progettualmente che didatticamente nella gran parte delle scuole. E‘ palese in tal caso la scarsa capacità del personale docente di operare in ambito transdisciplinare (causa negli anni 90 del fallimento di un eccellente lavoro ministeriale: Il Progetto Brocca); né è stato significativo per l’occasione, il contributo delle case editrici che negli anni hanno sopperito in gran parte al lavoro di programmazione deputato ai docenti. Il Ministro pro tempore oggi vorrebbe fare studiare la storia del dopoguerra dimenticando che tale compito programmatico dovrebbe essere esperito dal collegio dei docenti…. e a tal proposito giova segnalare che ad oggi langue il lavoro di sistemazione della letteratura italiana del 900…
Certamente abili parolai (indubbiamente dotati di intelligenza comunicativa) si trovano impegnati ad illustrare lo sforzo dell’attuale Ministro pro tempore nell’ammodernare la scuola. Costoro dovrebbero chiarire con il detto Ministro se l’orientamento è, prima ancora che un’attività informativa, un’attività formativa che si va a collocare tra gli step più alti del processo di apprendimento di un allievo; e chiarire anche, che l’educazione civica sia cosa ben diversa dal senso civico…. E dovrebbero ricordargli anche, che troppo facilmente si ricorre a inutili ore aggiuntive di lezione mentre sarebbe possibile individuare tra le pieghe epistemologiche delle discipline elementi utili a soddisfare le aspettative educative auspicate, prima ancora che programmate (la letteratura ad es. assolve pienamente questo compito). È necessario pertanto che la (oltretutto tanto strumentalmente enfatizzata) formazione umanistica sia declinata, ottemperando ai dettami degli assi culturali e tarata sul quadro dell’EQF, su competenze oltre che disciplinari anche valoriali (o di cittadinanza che dir si voglia) certificabili; perché diversamente il tutto si ridurrebbe, in assenza di esempi e di modelli concreti e contestualizzati, a sterile e poco incisiva riflessione teorica. “Il pensiero senza azione è solo un esercizio salottiero” affermava Mazzini….
Ma tornando al processo di apprendimento che percorre il tratto scolastico fino al diploma, serve citare ad es. Benjamin Bloom e la sua tassonomia. Questa inizia il suo iter con la memorizzazione (ed è quindi importante che già sin dalla scuola materna si inizino a studiare a memoria le filastrocche e le poesie dotate di rima e musicalità) mentre lo step più alto lo si raggiunge con la valutazione: ovvero la capacità di scelta ponderata (ecco l’orientamento …) che ogni studente al termine del suo apprendimento scolastico (l’ex maturità oggi esame di Stato) dovrebbe consapevolmente esibire. Questo dovrebbe caratterizzare una scuola che si propone di completare il percorso di apprendimento dei suoi giovani; ma in Italia questo non succede perché ci si ferma solo e soltanto alle conoscenze più o meno acquisite, e quasi nulla viene progettato per studiare, individuare e implementare le abilità dei singoli, ma tutto viene lasciato al caso o meglio rinviato alle “dinamiche della vita…magari lavorativa”. Non ci si accorge, tra l’altro, che Il sogno illuminista della conoscenza è crollato alla luce della moltitudine di saperi che si sono sviluppati nell’ultimo secolo e che, pertanto, non è possibile studiare tutto questo mare magnum. Diventa pertanto necessario, per arginare l’eccessiva mole di saperi, che le scuole operino attraverso la progettazione di strutture didattiche modulari, finalizzate all’acquisizione di competenze, sviluppando solo saperi fondanti, e comunque senza mai trascurarli. Ma quante scuole sono in grado di operare attraverso una didattica laboratoriale, utile a cancellare l’inconsistente spiegazione della lezione frontale, (o logocentrica che dir si voglia), operando su strutture didattiche più agili (moduli) in cui è prevista la certificazione collegiale delle competenze acquisite? L’ignoranza di sedicenti esperti porta come succitato a escludere la competenza quale prerogativa dei licei… E a proposito di valutazioni sarebbe ora di smetterla sia con i cosiddetti voti che con i giudizi spesso inutili perché banali e spesso incoerenti con i traguardi formativi definiti, ma che si concludono sempre e comunque con aggettivazioni corrispondenti ai predetti voti… E ancora oggi, purtroppo, non capita di rado vedere questi ultimi branditi come armi contro gli studenti… La valutazione dovrebbe essere un processo proattivo basato in sequenza su indicatori, descrittori e livelli per arrivare a certificare competenze programmate. Prima di arrivare alla sintesi numerica, cioè al livello che traduce quanto espresso nelle prime due voci, occorre che i traguardi formativi vengano definiti allorquando viene progettata quella che poi sarà la proposta didattica.
È solo attraverso tale processo sequenziale che la conoscenza, suffragata dalle abilità, si evolve in competenza. Sarebbe comunque ora, e ribadisco che all’uopo servirebbe un approccio bipartisan non solo lontano dagli interessi di bottega ma soprattutto dalle fisime ideologico-culturali dei singoli nonché dalle inadeguate soluzioni arcaiche, che la centralità della scuola venga spostata dall’interesse verso il docente, sulla quale è ancora strutturata la quasi totalità della normativa scolastica vigente, a quella dello studente.
Pertanto, nel lavoro di revisione del percorso scolastico sarebbe opportuno tenere presente, come la storia vecchia, recente e anche internazionale, suggerisce che le materie di studio debbano essere poche e fondamentali; magari da integrare con insegnamenti opzionali (anche se il cosiddetto ampliamento dell’offerta formativa non ha riscosso un successo significativo) per un totale non superiore alle 30 ore settimanali. Dopo di che accanto ai bisogni formativi che gli assi culturali e l’EQF, come succitato, hanno ben delineato occorre segnalare la necessità del potenziamento delle conoscenze tecnologiche. Cioè accanto alla vecchia dicotomia tra discipline umanistiche e scientifiche vanno inserite le discipline tecnologiche, oggi imprescindibili per vivere il mondo che stiamo creando e per capire come questo si sta evolvendo. Se negli anni ottanta abbiamo perso il treno dell’informatica vediamo di non perdere oggi quello dell’intelligenza artificiale. Ci siamo impoveriti a sufficienza e continueremo a farlo se non capiremo che la ricchezza di una nazione nasce prioritariamente dalle sue competenze scientifico-tecnologiche. Nei mesi scorsi sono stati resi noti i risultati del rapporto Ocse in materia di competenze cognitive nel nostro Paese (negli ambiti della comprensione del testo, dell’uso di dati numerici e di capacità di risolvere problemi) dai quali è emerso che siamo decisamente lontani dalla media internazionale. Questo si chiama analfabetismo funzionale…Vogliamo andare ancora avanti così?
