L’uccisione di Benito Mussolini

Ottant’anni fa, il 28 aprile 1945, alle 16,10 in località Giulino di Mezzegra – oggi Tremezzina – in provincia di Como, vengono uccisi Mussolini e la sua amante Claretta Petacci.

È la fine di un’epoca, la fine del Fascismo, di un uomo idolatrato da vivo, vilipeso da morto. Da allora ad oggi sullo storico evento si è tanto discusso, si sono scritti libri, senza però arrivare a chiarirne gli aspetti essenziali. Chi se ne è interessato ha dato più di una versione dei fatti, al punto che dopo 80 anni si discute ancora sugli autori del grave fatto di sangue. Tot capita, tot sententiae. Ma allora chi ha ucciso veramente il duce e in quale località? Ad oggi è difficile rispondere, anche se il partigiano Walter Audisio, noto come colonnello Valerio, ha pubblicato sulle pagine dell’Unità nel marzo del 1947 una sua dichiarazione, sostenendo di essere stato l’unico uccisore di Mussolini. Con lui c’erano i partigiani Aldo Lampredi, detto Guido, e Michele Moretti, detto Pietro Gatti (o Pedro), tutti convinti di voler dare esecuzione all’ultimatum del 19 aprile ‘45, approvato a Milano il 25 aprile dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).

Assistono all’esecuzione della sentenza di morte, oltre a Valerio, anche Bill (al secolo Urbano Lazzaro), il citato Guido ed un autista anonimo. Al momento di sparare a Valerio si inceppa il mitra. Era un Mas, modello 1938 (matricola 20830, calibro 7,65), secondo altri un Thompson. Si inceppa anche la pistola di Lampredi (una Beretta modello 1934) e Valerio chiama Moretti, che porta subito il suo mitra e con quest’arma viene colpito il duce con una mitragliata di 5 colpi. Subito dopo viene uccisa la Petacci. Fine della storia.

Ma c’è chi dissente da questa versione: l’esecuzione non avvenne alle 16,10 davanti al cancello della Villa Belmonte, bensì fra le 11 e le ore 12, a Bozanigo, in casa dei coniugi De Maria, dove il duce aveva passato la sua ultima notte. Quindi l’uccisione davanti alla villa era stata una seconda esecuzione, una sceneggiata bella e buona. A dar credito a questa versione, esiste una dichiarazione (del 15 maggio ‘45) a firma del comandante della piazza di Como, tale Oreste Gementi, che conferma le ore 12 come momento dell’esecuzione e che il partigiano Pedro fu l’artefice dell’uccisione.

“Sarebbe ora di smetterla – ripete il medico giudiziario della magistratura di Roma Aldo Alessiani – con questa fandonia della mitragliata vicino al muretto”.  C’è poi – a complicare le cose – la dichiarazione di Giovanni Lovati (il suo libro pubblicato da Mursia), che sostiene di aver ucciso lui il capo del fascismo, mentre l’inglese John sparò alla Petacci. Di fronte a questo groviglio di dichiarazioni e di smentite, diventa assai difficile arrivare alla verità e, se bisogna dar credito a questa versione, allora le cose si complicano e le affermazioni di Walter Audisio perdono valore. Ad accreditare la versione di Oreste Gementi (l’esecuzione prima delle 12) interviene l’autopsia, dalla quale risulta che lo stomaco di Mussolini a quell’ora era quasi vuoto. Non aveva pranzato.

Facciamo un passo indietro: il 27 aprile il duce camuffato da soldato tedesco viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri e prelevato dal camion n. 34 in cui stava viaggiando per espatriare. Il controllo degli automezzi tedeschi era avvenuto fra Musso e Dongo. I partigiani sequestrarono a Mussolini la famosa borsa con gioielli e documenti segreti. Superfluo chiedersi dove finirono gioielli e soldi (qualche miliardo) prelevati dalla borsa del duce. Dopo la fucilazione il corpo di Mussolini viene deposto sul pavimento di un corridoio dell’Istituto di medicina legale (Università di Milano). È il 30 aprile del ‘45 e due specialisti, Caio Mario Cattabeni e Pierluigi Cova, anatomopatologi eccellenti, iniziano l’autopsia sul corpo del duce, nonostante l’andirivieni di partigiani esaltati, che urlano e inveiscono contro il cadavere, entrando e uscendo dalla sala (un particolare raccontato da Roberto Fettorazzi). Quando i due medici si accingono all’autopsia della Petacci, arriva un ordine tassativo di non procedere.

Evidentemente qualcuno si era accorto che dalle parti intime della donna usciva liquido seminale, a riprova che la stessa aveva subìto violenza sessuale da parte di due partigiani, i cui nomi erano conosciuti da Giorgio Pisanò, Guglielmo C. e Giuseppe F. ed un ex carabiniere che si era impossessato del foulard di Claretta. E Gene Gnocchi, per strappare un mezzo sorriso al suo pubblico non esitò a definire la Petacci “maiale di Roma”, senza nessun rispetto per i morti.

Un post scriptum.

Per la cronaca è morto in questi giorni all’età di 94 anni Giacomo Bruni, che aveva trasportato i cadaveri da Dongo a Piazzale Loreto. E fu un prete partigiano, don Giuseppe Pollarolo, che applicò una spilla alle gambe di Claretta Petacci, che era stata esposta nuda a piazzale Loreto.

Ed il giallo resta.

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