PEDALANDO TRA I TRABOCCHI

LA PARTENZA DEL GIRO D’ITALIA FORMIDABILE VETRINA PER IL TURISMO ABRUZZESE.

   di Ermanno Falco

Sabato 6 maggio: una data destinata ad unire sorti e prospettive di quella che è da sempre una delle corse a tappe più importanti del mondo ed il sistema turistico abruzzese, impegnato da anni e con esiti non sempre felici ad annullare il gap che ancora lo separa da altre regioni, meglio conosciute e più frequentate forse perché più abili a curare la propria immagine.

Con mossa accorta e lungimirante la Regione Abruzzo si è assicurata, a distanza di 22 anni dalla prima volta, non solo la tappa di partenza del giro d’Italia, ma un vero e proprio “minitour” iniziatico che prevede lo start della “Fossacesia Marina – Ortona”, prova a cronometro individuale di 18,4 chilometri (quindi non un semplice prologo) sulla pista ciclabile, o ciclovia, dei Trabocchi nello splendido scenario del porto e della costa ortonese, la tappa in linea da Teramo a San Salvo il giorno seguente e l’arrivederci provvisorio il terzo giorno con la partenza da Vasto alla volta della normanna Melfi in Basilicata. Un arrivederci provvisorio a breve termine in quanto la “corsa rosa” prevede il rientro in Abruzzo, questa volta nella suggestiva e faticosa sezione appenninica, venerdì 12 maggio con la settima frazione Capua-Campo Imperatore.

Era la primavera del 2001 quando Montesilvano e con essa tutta l’area metropolitana di Pescara furono invase e pervase da una vera e propria “febbre rosa” provocata dal contatto stretto con la variopinta carovana del Giro, l’84° della storia, fatto che rappresentò una sorta di riconoscimento-celebrazione di una terra che, prima di tutte tra quelle del Sud, aveva abbracciato il ciclismo sin dai tempi pionieristici delle corse avventurose e picaresche vissute come odissee infinite tra acqua, fango, sassi, fame, sete e pericoli di ogni genere.

L’Abruzzo: terra di strade in continua, irrimediabile pendenza, piste e tratturi che da sempre l’uomo ha condiviso con le sue bestie, percorsi tortuosi che più che a collegare servivano a dividere e a mettere riparo tra le varie “civitates” bellicose in perenne lotta tra loro, in un contesto storico e geografico in cui isolamento e lontananza erano l’unico antidoto a guerre, morte e distruzione.

La vita dell’uomo dipendeva da agricoltura e pastorizia oltre che, ma in minor misura, dalle funzionalità ad esse collegate come le varie forme di artigianato di corte e di campagna, tutte impiantate ed esercitate “ad adiuvandum” le due principali forme primarie di lavoro e sostentamento umano.

I mezzi di trasporto, sempre gli stessi da secoli, salvo le lente migliorie stancamente spalmate nel tempo, erano strettamente riferiti al limitato giro della giornata di fatica del contadino e del pastore e lasciavano poco spazio al perfezionamento tecnologico e alla estensione della loro utilizzazione al di fuori del territorio di competenza.

Tutto ciò è durato fino quasi alla metà del XIX secolo quando, con notevole e deleterio ritardo, i segni benefici della rivoluzione industriale e della conseguente modernizzazione penetrarono per la prima volta le aspre barriere appenniniche ove per secoli erano state circoscritte vitalità e potenzialità peculiari degli abruzzesi.

Con l’Unità d’Italia si avviò un processo, ostacolato e lento quanto si vuole ma al tempo stesso profondo e irreversibile, di progressiva liberazione dagli schemi ancestrali di una economia e di una società chiuse e ripiegate nel corto spazio di una serie di borghi e si aprì la strada a quello che doveva risultare il concetto-chiave della svolta che si verificò in questa fase della storia: l’avvento della civiltà della comunicazione, ossia l’era dello scorrimento veloce di idee, notizie, esperienze e quanto di altro utile e necessario alla crescita ecumenica della qualità della vita.

Il mondo dei trasporti di persone e merci con le sue spettacolari innovazioni rappresenta al meglio la radicalità di un cambiamento sia tecnologico che esistenziale che ha rivoluzionato con rapidità sempre crescente ogni singolo ambito delle umane relazioni.

L’economia mondiale per perseguire i propri obiettivi e interessi si dotò di mezzi sempre più efficaci a garantire lo spostamento di grandi numeri e quantità di viaggiatori e merci.

Oltre a treni, navi a vapore, autoveicoli e aviogetti la genialità umana inventò nel corso dell’’800 e a varie tappe il velocipede, che poi sarebbe diventato la nostra bicicletta, veicolo a pedali mosso dalla forza muscolare degli arti inferiori e adibita a piccoli spostamenti per necessità o diporto.

Se mettiamo insieme l’anelito per troppo tempo mortificato degli abruzzesi a superare le barriere storiche del proprio angusto vissuto quotidiano e le possibilità spazio-temporali garantite dal piccolo ma prezioso nuovo mezzo di locomozione, forse comprendiamo con maggiore agio la fortuna ed il seguito che il ciclismo ha avuto da sempre nella nostra regione.

La bicicletta è entrata da subito nelle nostre abitudini giornaliere a dimostrazione che la voglia irrefrenabile di migliorare le nostre condizioni di vita, unita ad un’innata propensione alla velocità e all’incontro, fa giustizia di secoli di immobilità e solitudine e determina inedite modalità di abitudini e stili di vita.

Inoltre l’esercizio costante e la resistenza alla fatica, cementata in millenni di fatica agreste, rendevano del tutto facile e naturale il rapporto col mezzo a due ruote, tanto che, come mi raccontavano gli anziani, negli anni ’20 e ’40 dello scorso secolo era del tutto normale che i lavoratori delle fabbriche e dei cantieri si sobbarcassero distanze di almeno 10, 20 chilometri per raggiungere ogni giorno il posto di lavoro ed altrettanti per tornare a casa dopo ore ed ore di pesante fatica manuale!

Figuratevi, allora, come fosse considerato leggero e persino voluttuario l’impegno fisico delle corse a tappe o in linea che si organizzavano sin dagli albori del “secolo breve” anche nella nostra regione in un festoso clima di crescente interesse per lo sport del pedale ed i suoi campioni, considerati veri e propri eroi moderni, al pari di quelli antichi e dei paladini medievali.

Le cronache degli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 narrano di tale Costanzo Trifoni da Giulianova che nell’Anno del Signore 1896 compì la mitica impresa di vincere una gara, la Milano-Monaco di Baviera che oggi, malgrado i miglioramenti tecnologici e stradali intercorsi, sarebbe impossibile da svolgere, data la sesquipedale (e qui il pedale ci sta tutto, anzi ce ne stanno due) distanza di ben 590 chilometri.

Di tale eroe dalla Prima guerra mondiale non si seppe più nulla, ma l’epopea magica del nostro ciclismo, forte di cotal viatico, era appena iniziata e continuò a manifestarsi per tutto il periodo che separa le due guerre mondiali con un crescendo di interesse e partecipazione che non risparmiava alcuna contrada.

Sino al secondo dopoguerra l’arretratezza economica della regione e le difficoltà di carattere organizzativo, pur non impedendo una marcata implementazione della passione popolare che si rendeva manifesta soprattutto in occasione del passaggio e degli arrivi del Giro nelle nostre città, non permise l’affermazione a livello nazionale dei pur cospicui talenti locali. A partire dalla seconda metà degli anni ’40 invece l’estensione ulteriore del movimento e della sua capacità organizzativa con la nascita di nuovi e sempre più numerosi gruppi sportivi anche nei centri minori garantì una più estesa e curata selezione grazie alla quale salirono alla ribalta campioni del calibro di Alessandro Fantini di Fossacesia, vincitore di 7 tappe al Giro d’Italia e di 2 al Tour de France, sprinter intrepido ed esplosivo tragicamente scomparso a seguito di una caduta al Giro di Germania del 1961.

Ci vorrebbero, poi, non uno, ma un intero scaffale di libri per raccontare le gesta sportive, dialettiche ed umane di Vito Taccone. avezzanese smaliziato e loquace, eccellente comunicatore “ante litteram” ed efficacissimo promotore delle qualità proprie. Un grande atleta, capace di imprese epiche come le quattro tappe consecutive vinte al Giro del 1963 e nel contempo di rintuzzare le insidie mediatiche di chi, come il grande giornalista Sergio Zavoli, tendeva intelligentemente a scavare nell’intimo dei corridori, espungendone e mettendone in rilievo, con le qualità, difetti e complessi. Chi scrive non potrà mai dimenticare il delirio e l’urlo possente della folla che accolse il “camoscio d’Abruzzo” vincitore del Trofeo Matteotti del 1966 nella bolgia infernale di Piazza Duca a Pescara.

Altri personaggi, cui bisognerebbe tornare più spesso per inquadrarne lo spessore e celebrarne le gesta hanno arricchito il panorama del ciclismo abruzzese d’élite: Palmiro Masciarelli, modesto di carattere ma grande di cuore e mezzi atletici, indispensabile e insostituibile collaboratore (la parola gregario non mi è mai andata a genio) di Francesco Moser; Stefano Giuliani, bravo come atleta e ancor più come dirigente sportivo; Danilo Di Luca, il “killer di Spoltore”, campione completo, elegante e … fotogenico, protagonista tanto delle corse a tappe che di quelle in linea, vincitore del Giro del 2007, una stella la cui luce fu purtroppo offuscata da vicende legate al doping che ne provocarono la fine anticipata della carriera.

Oggi il riferimento di eccellenza si chiama Giulio Ciccone, che con Dario Cataldo, ancora convalescente per la rovinosa caduta riportata alla prima tappa del Giro di Catalunya nello scorso mese di marzo e a cui facciamo i migliori auguri di pronta guarigione e di rapida ripresa dell’attività agonistica, rappresenta il vertice del ciclismo professionistico regionale.

Campione attrezzato su ogni percorso, anche se fondamentalmente rimane un eccellente scalatore, Ciccone è un chietino per cui tifano sfegatatamente anche … i pescaresi, tanta è la sua caratteristica affabilità che, unita al naturale talento, suscita istintivamente simpatia e aspettative in tutti gli appassionati.

Nel corso della sua carriera Ciccone ha dovuto fare i conti con delicati problemi cardiaci, brillantemente superati grazie alla sua forte corazza di atleta e ad una attitudine agonistica al tempo stesso istintiva e pugnace, caratteristiche che spesso lo hanno penalizzato per eccesso di generosità ma che da qualche tempo, alla luce degli imprevisti di vario genere incorsigli in carriera, sta correggendo in direzione di condotte di gara più ragionate e avvedute.

Grandi speranze, dunque, nel solco di una storia d’amore che tra l’Abruzzo e la bicicletta è destinata a perpetrarsi per la gioia e la passione di chi continua ad amare questo sport che più di altri rappresenta la fatica e la voglia di arrivare che ognuno persegue quotidianamente per tutto il percorso della propria esistenza.

Grazie al ciclismo e al Giro d’Italia, al fervido lavoro degli organizzatori “in loco”, primo fra tutti l’infaticabile Maurizio Formichetti, l’Abruzzo dei Parchi e dei Trabocchi aspira con cognizione di causa ad entrare nei cuori di chi, sportivo o non, magari affascinato dalle riprese televisive degli splendidi scorci paesaggistici attraversati, vorrà visitare la terra del popolo “forte e gentile”.

E si sa, solo chi non lo conosce non s’innamora dell’Abruzzo!

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