Nella morsa della Giustizia

(decimo e parte dell’undicesimo capitolo)

di Domenico Di Carlo

GLI APPOSTAMENTI

Il giorno seguente, Parenti riunì tutti i presenti in servizio, per aggiornarli riguardo le indagini.

In servizio c’erano, oltre al maresciallo, due brigadieri, un vicebrigadiere, tre appuntati e due carabinieri scelti. Ottenuto il silenzio, iniziò il suo discorso:

«Colleghi, vi ho convocati perché il procuratore della Corte d’Assise Campana, sollecita ulteriori indagini per la risoluzione dell’omicidio Ghersi, caso che presenta aspetti molto complessi per mancanza di concreti elementi indiziari; considerando ciò, sono dell’idea di ricorrere a metodi collaudati d’indagine: l’appostamento e il pedinamento. Qualche elemento indiziario è emerso a carico del ristoratore Vitelli ma per adesso è ancora poco. Ieri pomeriggio, nel sopralluogo al bar-ristorante, ho trovato in cucina altri coltelli di marca “Sanelli” e ho provveduto a sequestrarli; nel set manca proprio il coltello della dimensione di quello trovato nella darsena, forse usato nell’omicidio Ghersi. Ritengo che Vitelli sia a conoscenza di più di quanto non dica, per questo da domani eseguiremo a turni l’appostamento, se individueremo qualche sospettato, lo pedineremo.

Il collega Antonioni ha già effettuato una ricerca dei nominativi dei proprietari e inquilini del palazzo Vincenti di fronte al bar ristorante; tra i residenti abbiamo rinvenuto il nome di Angela La Terza, vedova del collega sottufficiale Massimiliano Loiacono. Dal suo appartamento, se la signora lo consentirà, potremmo avvistare e fotografare chi entra e chi esce dal locale. Domani, l’appostamento avverrà con l’utilizzo di una autovettura Audi con targa tedesca. Tutto chiaro?»

«Chiaro!» risposero i sottoposti praticamente all’unisono, dando grande soddisfazione al maresciallo.

Nel pomeriggio, Parenti e Antonioni si presentarono a casa della signora La Terza. La donna li accolse con molta cortesia; era una signora intorno ai settant’anni, alta, bella presenza, capelli bianchi lunghi, raccolti in testa con eleganza da un fermaglio; il viso sereno sorridente faceva da cornice ai suoi occhi chiari.

«Prego, accomodatevi pure,» disse la donna mostrando il salotto dove troneggiava un invitante divano di stoffa rossa, «vedervi mi ricorda quando mio marito rientrava dal servizio, in quel momento ogni preoccupazione svaniva; il vostro è un lavoro pericoloso che lascia in grande apprensione le persone che vi aspettano a casa.»

«È vero signora, noi siamo sempre presi dal lavoro, direi quasi per fortuna, perché almeno non abbiamo un minuto di sosta per riflettere sull’inquietudine che facciamo provare ai nostri cari,» rispose Parenti.

«Maresciallo, però devo dirglielo: sono convinta che lei non sia venuto solamente per una visita di cortesia, per favore mi spieghi cosa la porta qui.»

«Vede, per motivi di servizio avremmo necessità per alcuni giorni di eseguire un appostamento. Stiamo ricercando un pericoloso assassino di una studentessa universitaria, di buona famiglia, di San Frediano. Abbiamo ragione di pensare che qualcuno fra i frequentatori del locale di fronte alla sua abitazione, potrebbe essere coinvolto,» continuò Parenti.

«Dio mio!» esclamò colta dallo sgomento e dallo stupore. Dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua per rinfrancarsi, la signora concesse il permesso di poter usufruire della sua abitazione, aiutando Parenti e Antonioni per scegliere quali punti di osservazione fossero più idonei.

Era il 12 marzo, all’ora convenuta il brigadiere Antonioni parcheggiò l’Audi a pochi metri dall’ingresso de ‘Il giglio’, mentre il brigadiere Valensise si recava verso l’appartamento della signora La Terza.

Antonioni guardava attentamente i giovani che sostavano davanti al locale o vi entravano, di tanto in tanto scattava qualche fotografia nelle situazioni che riteneva potessero essere interessanti, senza escludere coppie e famiglie. Valensise invece dalla sua postazione annotava sul taccuino numeri di targa e tipo di autovettura di coloro che entravano nel ristorante, mentre la padrona di casa lo osservava silenziosamente per non disturbarlo. Al termine della giornata, Antonioni aveva scattato cinque fotografie, mentre Valensise aveva preso nota di altrettante targhe e tipi di autovetture ritenute di personaggi sospetti. Dopo un’attenta verifica, solo due vennero ritenute interessanti ai fini dell’indagine.

La prima era una Fiat Dino 2.4T Spider di proprietà un tale Valerio Mocci, un pregiudicato conosciuto nei dintorni. Era stato in carcere per spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti, violenza, rissa e lesioni personali aggravate.

La seconda invece era una Lancia Fulvia di proprietà di Malik Al-Mudal, un nord-africano. Anch’egli stato in carcere in precedenza, però per dei capi d’imputazione differenti: favoreggiamento della prostituzione e dell’immigrazione clandestina.

Delle fotografie scattate da Antonioni, solo una era stata ritenuta interessante: riguardava due giovani di circa venticinque anni, immortalati mentre prendevano una tazza di caffè ai tavoli all’aperto e si scambiavano foto di ragazze con scollature osé o in bikini con fare decisamente complice.

Uno dei due era conosciuto dal maresciallo: era Sergio Cancellieri, figlio di un noto commerciante di tessuti che aveva il negozio in via Cavour; un giovane alto, occhi azzurri, capelli lunghi ben tenuti, che amava la bella vita e i locali notturni. Considerando gli atteggiamenti che avevano mostrato i due mentre erano al locale, sicuramente erano amici del titolare, Vitelli.

Parenti, dopo aver esaminato attentamente i risultati delle indagini ed essersi confrontato con i colleghi, decise di procedere chiamando i sospettati per un interrogatorio, partendo proprio dai due identificati da Valensise.

GLI INTERROGATORI

Il 18 marzo, due gazzelle dei carabinieri prelevarono Mocci in un casolare di campagna a Scandicci e Al-Mudal in borgo Ognissanti, al seminterrato di una palazzina, ai limiti del fatiscente, per portarli in caserma e rispondere alle domande riguardanti il caso.

Il primo a essere interrogato fu Al-Mudal. Declinate le sue generalità, il maresciallo gli pose svariate domande chiudendolo in un serratissimo botta e risposta, quasi senza permettergli di respirare e riordinare le idee:

«Dove si trovava la sera del 7 settembre?»

«Non posso ricordare dove mi trovavo il 7 settembre dell’anno scorso, sono trascorsi più di sei mesi ormai,» rispose l’interrogato in maniera desolata, consapevole dell’importanza della sua risposta. Dopo essersi calmato e aver preso un bicchiere d’acqua, riuscì a continuare:

«Adesso che ci penso, ricordo che il 2 di settembre alle undici del mattino feci un incidente stradale con il motorino sul lungarno Cristoforo Colombo. Era coinvolto anche un camion che trasportava mobili. Fui ricoverato per fratture alla mano, al piede e al braccio. Non ricordo quando sono stato dimesso, forse dopo una settimana o dieci giorni…»

«Ci sono modi per verificare quello che sta dicendo?»

«Certamente, ma non ho documenti sanitari con me, non avevo idea del motivo per cui mi avevate chiamato. Però posso dirle che sono stato ricoverato prima all’ospedale di Careggi e poi sono stato trasferito altrove per la riabilitazione.»

Il maresciallo fece chiamare il reparto chirurgia dell’ospedale di Careggi per avere conferma della data del ricovero. Dopo una breve ricerca, la capo-sala confermò agli atti che il ricovero era avvenuto dal 2 al 10 settembre per fratture multiple al piede, alla mano, alla spalla ed escoriazioni al viso e alla testa. L’incidente era stato abbastanza grave, tanto che dopo le dimissioni erano stati prescritti all’infortunato ben quarantacinque giorni di riabilitazione presso una clinica privata. A ulteriore conferma, l’appuntato Antonioni era stato incaricato di ritirare la documentazione probatoria all’ospedale di Careggi.

Fatti questi veloci accertamenti, Parenti lasciò libero Al-Mudal.

Fu poi la volta di Valerio Mocci e anche lui, dopo aver declinato le generalità, fu preso da uno stato d’irritazione e d’inquietudine per l’interrogatorio inatteso, ma conoscendo già quell’ambiente, pensò bene che la soluzione migliore sarebbe stata quella di collaborare. Ovviamente la prima domanda che gli venne posta, fu la stessa che aveva sentito precedentemente Al-Mudal riguardo la notte incriminata.

«Non ricordo dove mi trovavo il 7 settembre fino a tarda notte… Stiamo parlando di non poco tempo fa. Forse mi trovavo in campagna a Scandicci, perché ho preso in affitto tre ettari di terra da un vecchio contadino da più di un anno. Mi sta insegnando il lavoro agricolo. Coltivo la terra con un mezzo e produco ortaggi, grano, adesso anche olio e vino. Allevo galline, pecore e ho un maiale… pensandoci bene, forse ero in ospedale, perché faccio percorsi sanitari di recupero dalla tossicodipendenza, con medici specialistici e psicologi…»

«Ha degli orari precisi per queste sedute?»

«Vado in ospedale quando posso, solitamente il pomeriggio, dalle sedici fino alle diciannove.»

«Bene, devo ammettere che non me lo sarei aspettato affatto, sono piacevolmente sorpreso! Finalmente sento parole degne di un vero uomo, vedi di continuare per questa strada!»

«Il mio desiderio è reinserirmi nella società, senza avere vergogna di me stesso, e non farla provare alle persone che si relazionano con me…» aggiunse quasi sottovoce Mocci.

Dopo una breve verifica, anche le risposte di Mocci alla fine convinsero Parenti della sua estraneità al fatto criminoso, così l’interrogato venne prontamente congedato.

A tal punto, la ricerca di indizi e di elementi di prova era circoscritta agli interrogatori di Stefano Cortesi, Lorenzo Guelfi, Sergio Cancellieri, un suo amico non ancora identificato e Giancarlo Vitelli.

Il 25 marzo, Stefano Cortesi e Lorenzo Guelfi ricevettero una telefonata della caserma dei carabinieri di San Frediano che li invitavano a comparire il 28 marzo alle ore sedici per essere interrogati su alcuni fatti di giustizia, senza però scendere in particolari, atteggiamento che mise abbastanza in agitazione i giovani, che non si spiegavano il motivo di tanta segretezza.

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