Linguaggio ed essere (prima parte)

di Marco Tabellione

In un momento in cui la storia e le urgenze esteriori insorgono e minacciano, ha senso spostare l’attenzione su un elemento eminentemente culturale come il rapporto tra linguaggio ed essere? Sì ha senso, perché si pone a monte di molte situazioni che oggi ci paiono insormontabili e che avremmo voluto non vivere o rivivere. Si pone a monte perché il linguaggio, che probabilmente è ciò che davvero ci distingue dal resto degli animali ma anche dall’universo intero, è una facoltà tipicamente umana. Questa facoltà, tuttavia, non viene utilizzata solo per comunicare, perché evidentemente anche molti animali riescono a comunicare, anzi addirittura sembra che persino le piante possano fra di loro mandare messaggi quando alterano la composizione chimica del terreno avvertendo gli altri vegetali di condizioni mutate.

In realtà noi uomini, ed è in ciò l’esclusività della specie umana, usiamo il linguaggio per scopi che esorbitano dalla semplice comunicazione, per quanto chiamare semplice la comunicazione non certo sia facile. Noi utilizziamo il linguaggio per costruire significati, per dare senso al mondo, addirittura per comprendere e conoscere la realtà, come dimostra il fatto che la prima associazione che compiamo di fronte ad un elemento della realtà è quella del nome (ad esempio il sole per noi è innanzitutto una parola, la parola che indica la cosa della realtà). In effetti se riflettiamo su come agisce il nostro pensiero, è facile accorgersi che le nostre idee, i nostri pensieri hanno una inequivocabile forma linguistica, le idee sono immesse innanzitutto in parole, e nella mente le parole ci aiutano a formulare le idee.

Questa dimensione interiore del linguaggio che noi utilizziamo per dare vita alle idee, e dunque alla nostra consapevolezza del mondo, è stata definita da Lev Semenovic Vygotskij come linguaggio interiore, esperienza della lingua mentale che lui ha approfondito come sociologo dei bambini nella Russia del primo novecento (non per niente Vygotskij poi subì la censura staliniana, come tutti i suoi libri). Vygotskij è giunto dunque a ritenere che le nostre categorie mentali non esistono a priori, ma si formano e si formulano a partire da strumenti collettivi, bagagli comunitari come appunto è il linguaggio, linguaggio che viene rimaneggiato mentalmente e verbalmente dai singoli, ulteriormente arricchito per essere poi ricondiviso con altri parlanti o pensanti. La cultura, dunque, intesa come apprendimento e crescita delle persone ha una dimensione più collettiva che individuale, questo almeno secondo Vygotskij.

Tale scoperta fece nascere la celebre diatriba tra Jean Piaget e lo stesso linguista russo. Perché Piaget (che poi si confrontò con Vygotskij, che invece al contrario non conobbe mai il suo collega svizzero) aveva individuato una serie di tappe evolutive nei bambini, e giunse in seguito a codificare un sistema della formazione intellettiva basato su un percorso interiore e individuale; infatti secondo Piaget l’individuo non può comprendere un costrutto di un determinato livello se non raggiunge un corrispettivo stadio evolutivo. Vygotskij, come abbiamo visto, al contrario aveva notato che l’apprendimento ha una dimensione tutta collettiva; aveva notato che non dipende dalla evoluzione dell’individuo, ma dipende dall’ambiente in cui il bambino ha vissuto, l’acquisizione o meno di determinate capacità intellettuali, e dunque l’intera gamma dell’apprendimento culturale. Ciò aveva spinto il linguista russo a teorizzare le cosiddette zone di apprendimento prossimale, in pratica aree che non hanno molta a che fare con le età, ma piuttosto con le influenze e gli influssi dell’ambiente. Dall’ambiente infatti secondo Vygotskij il bambino ricava le coordinate per comprendere i processi culturali e assimilarli; ma se questo influsso ambientale e collettivo non c’è stato, il bambino non è in grado di assimilare e acquisire culturalmente, e ciò al di là delle sue capacità intellettive e del cosiddetto quoziente di intelligenza.

Così per lo studioso russo, l’insegnamento risulterebbe del tutto inutile se viene compiuto prima che la persona recepisca gli influssi necessari dall’ambiente, così come sarebbe del tutto inutile insegnare ad un bambino che ha già ricevuto dalla collettività le coordinate basilari, bambino quest’ultimo che invece può procedere benissimo da solo, come dimostrano le sperimentazioni di Vygotskij sul linguaggio interiore (linguaggio che non può svilupparsi senza il primo apporto collettivo, ma che poi procede da solo).

Le ipotesi di Vygotskij non sempre sono state pienamente accolte. Pur non riferendosi direttamente a lui, Husserl, il creatore della fenomenologia, sosteneva invece che i significati vivono indipendentemente dal linguaggio, che dunque appare piuttosto come uno strumento atto a rappresentarli, poiché i significati derivano dalla realtà, almeno così sostiene Husserl, secondo una prospettiva ovviamente fenomenologica, che mira cioè a recuperare con la realtà fenomenica, un rapporto puro, scevro da strumentalizzazioni e pregiudizi. Per dimostrare la sua tesi Husserl fa un esempio molto semplice: quando non riusciamo a trovare una parola, che non ci viene, mentre abbiamo chiaro il significato, la dicotomia che si crea in quel caso dimostra che non è il linguaggio che crea o aiuta a creare i significati (altrimenti significato e parola sorgerebbero sempre insieme). (continua ..)

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