MACEDONIA AL VELENO

   di Ermanno Falco

E sono due: con l’inopinata ma onestamente meritata mancata qualificazione alla fase finale del mondiale Quatarino (o Quatariota, la questione è aperta) che si svolgerà nella piccola penisola della penisola araba a cavallo tra novembre e dicembre prossimi, l’Italia non sarà presente per ben due fasi finali di fila alla massima manifestazione del calcio planetario.

E questo dopo che, non più indietro della scorsa estate, quelli che Nicolò Carosio amava definire “i Moschettieri” erano assurti alla gloria calcistica continentale strappando, dopo un digiuno durato 53 anni, il titolo europeo ai sussiegosi (prima) e furibondi (dopo) padroni di casa inglesi.

Nessuno, neanche i più pessimisti, avrebbe previsto una fulminea uscita di scena sin dal primo spareggio, giocato in casa, nella passionale Palermo, sempre attaccata ai colori azzurri, contro i carneadi della Macedonia del Nord, ancor meno conosciuti dell’oscuro filosofo greco-antico, paradossalmente reso celeberrimo grazie alla icastica citazione manzoniana.

Si pensava infatti, se non proprio ad una passeggiata (nel calcio, specie quello contemporaneo, nulla va dato per scontato e tutti, dico tutti, meritano il massimo rispetto ed attenzione) ad un impegno di grado non primario, una importante prova d’orchestra in vista del decisivo concerto che si presumeva doversi tenere in terra lusitana contro Cristiano Ronaldo e compañeros.

Si profilava all’orizzonte, dunque, la sagoma ghignante e guascona di quell’ex juventino che in quel di Manchester, alla (calcisticamente) veneranda età di anni 37 ha ritrovato la forma migliore dopo il periodo di disorientamento fisico e realizzativo di inizio 2022.

La capitale (tale è Palermo) siciliana aveva mobilitato il proprio affetto per la grande occasione. Il presidente della FIGC Gabriele Gravina, vincendo un antipatico braccio di ferro con la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport ed ex schermitrice Valentina Vezzali, aveva ottenuto la capienza piena del “Renzo Barbera” che in effetti al fischio d’inizio dell’arbitro francese Turpin appariva gremito in ogni settore e carico di entusiasmo per un’Italia cui si concedeva le più ampie credenziali quanto meno per il passaggio del turno.

La vigilia per la verità non era stata infermieristicamente delle più tranquille, nel senso che la lista degli indisponibili si era pericolosamente allungata fino a comprendere, oltre ai lungodegenti Chiesa e Spinazzola, gente importante per Mancini, come Di Lorenzo, Toloi, la storica coppia difensiva bianconera Bonucci – Chiellini , mentre da ultimo, come pioggia sul bagnato, si era dovuto rinunciare per covid anche ad un Locatelli dato in gran spolvero e considerato punto fermo nello schieramento tattico.

Una assenza importante, quest’ultima, arrivata inaspettata all’ultimo momento; ma vuoi che il calcio italiano nel suo insieme non sia in grado di sopperire alla mancanza di un centrocampista sia pur duttile e dinamico come lo juventino? Del resto, il gigante lecchese era dato per certo rientrante per la partita finale dello spareggio, considerata scontata dopo aver agevolmente sbrigato la pratica macedone.

Si viaggiava dunque da Coverciano alla volta di Palermo coscienti della riduzione del quoziente tecnico provocata dalle tante defezioni vecchie e nuove, ma in ogni caso fiduciosi nel superamento del primo ostacolo, degno di rispetto ma sicuramente non proibitivo.

Gli avversari, la Macedonia del Nord, denominazione ufficiale dello Stato assunta dopo le rimostranze della Grecia, irritata non poco per la possibile confusione con la sua storica regione settentrionale, pur percependo e manifestando grande preoccupazione per dover affrontare in trasferta i campioni d’Europa, lasciavano trasparire con chiarezza un certo atavico orgoglio e apparivano arditamente mobilitati a difendere le sorti di una patria giovane e protesa a farsi parte attiva di un contesto internazionale che trascende la semplice dimensione sportiva.

E che per loro quella partita rappresentasse un appuntamento storico lo dimostravano non solo i 1600 tifosi ospiti presenti sulle tribune, ma anche la partecipazione totale di chi aveva simpaticamente e con grande educazione invaso Palermo, nonché, soprattutto, una vigilia spasmodicamente attenzionata in patria senza soverchie illusioni, ma con l’orgoglio di ben figurare e la segreta speranza di un sogno che poteva anche trasformarsi in realtà.

Una squadra che nel girone di qualificazione era stata capace addirittura di vincere in Germania era sicuramente da tenere d’occhio, ma al fischio d’inizio del francese Turper ogni italiano, sportivo o no, nutriva un convinto e tranquillo ottimismo sull’esito dell’incontro.

Partita a senso unico. L’Italia attacca, la Macedonia del Nord si difende evidenziando continuamente errori e affanno: prima o poi uno dei loro frequenti svarioni ci darà il destro (o il sinistro, o la capocciata giusta) per andare a bersaglio e mettere in carniere il passaggio del turno.

Ma i minuti passano ed il fraseggio azzurro si fa sempre più sterile e scontato, mentre quelli in maglia rossa prendono a mano a mano fiducia e coraggio.

Si arriva con crescente apprensione ai minuti finali e al recupero: niente paura, ragazzi, vinceremo lo stesso anche se non avevamo previsto di arrivare ai supplementari.

Quando mancano un paio di respiri alla fine dei tempi regolamentari una veloce incursione macedone viene stupefacentemente finalizzata in rete con un destro chirurgico e letale, come un’iniezione al curaro, di quel Trajkovski dal non memorabile trascorso rosanero, evidentemente ottimo memore di distanze e fili d’erba del terreno dello stadio della “Favorita”. Il siluro mortale s’infila proprio rasente il palo alla sinistra di Donnarumma, partito in leggero ma decisivo ritardo forse perché coperto da compagni e avversari.

Chi s’intende di film e romanzi gialli sa bene cosa vuol dire delitto perfetto: la Macedonia avvelena tutta una nazione con l’inesorabile tempestività del più professionale dei killer, senza concedere nessuno scampo alla propria vittima raggiunta da un’inattesa pugnalata sferrata da chi per tutta la partita si era limitato a subire le iniziative degli azzurri, per la verità sempre meno convinte ed efficaci.

Campioni d’Europa a casa, dramma nazionale che in altri tempi avrebbe determinato implicazioni sociali e interrogazioni parlamentari, mettendo addirittura in crisi equilibri di governo e finanche assetti istituzionali…

Ma per fortuna i tempi sono cambiati e oggi la gente, tra covid, guerra in Ucraina e angustie varie, ha altro cui pensare, onde si tira avanti e si confinano le Caporetto sportive, come è giusto che sia, in un ambito limitato e circoscritto d’interesse, senza scomporsi più di tanto se dovremo sopportare il sarcastico sfottò dei nostri rivali stranieri, soprattutto europei che, fingendosi rattristati per l’assenza ai mondiali di una grande potenza calcistica come l’Italia, in realtà se ne beano fregandosi le mani.

Siccome però siamo italiani e ci teniamo ancora ad approfondire chiacchierando termini e conseguenze di una disfatta sportiva che, volenti o nolenti, è destinata ad avere una certa ripercussione sulla quotidianità popolare ma soprattutto sulla stessa bilancia economica del movimento calcio e quindi anche, per quanto limitatamente, dello stesso Paese, è giusto che vada avviata qualche riflessione sulle incoerenze di un sistema che resta nonostante tutto ai vertici dell’organizzazione sportiva mondiale.

Se infatti per due edizioni consecutive non accediamo alla fase finale dei mondiali di calcio, risulta evidente che al di sopra delle motivazioni di stretto carattere tecnico (cui peraltro gli stessi organi competenti non sembrano dare troppa importanza dal momento che la permanenza alla guida tecnica di Roberto Mancini non è stata mai messa in discussione) occorre inquadrare analiticamente la struttura complessiva del nostro calcio, sottoponendo regole, prassi e strategie alla lente d’ingrandimento di una critica che vuole essere costruttiva ed efficacemente diretta ad evitare errori che, se dovessero continuare a ripetersi, ne minerebbero in modo irreversibile interesse e credibilità.

Già di prim’acchito va messa in luce la condotta irresponsabile e inconsapevolmente autolesionista dei club e della Lega di serie A, che da anni conducono una politica ultra esterofila che danneggia al tempo stesso le casse societarie ed il livello tecnico del nostro massimo campionato; una strategia improntata sull’improvvisazione e sulla navigazione a vista che colpisce e danneggia sia i vivai di provincia che i prestigiosi “rosters” di serie A, ove i cognomi italiani sono sempre più rari, quando non del tutto assenti.

Una caterva di dirigenti che mal sopportano le legittime esigenze della nazionale, cui antepongono operazioni da guadagno immediato concordate e concluse con procuratori il cui solo interesse è il tornaconto personale a scapito della passione popolare e del livello valoriale autoctono proprio di ciascuna nazione.

A Mancini, che pure ha le sue colpe, non è stato concesso il tempo strettamente necessario a riordinare le fila di un manipolo falcidiato, come detto, da susseguenti indisponibilità e cali di condizione, anzi, lo si è messo con le spalle al muro intimandogli di arrangiarsi, tanto “vuoi che i campioni d’Europa non vadano al mondiale?”.

Come se per ottenere un trofeo bastasse averne vinto uno nel recente passato: lo sport, che è maestro di vita, ci insegna al contrario che è proprio dopo un traguardo felice che bisogna centuplicare le forze per conservare e migliorare quell’equilibrio sottile di energie fisiche e mentali che hanno consentito il successo.

Dopo ogni vittoria, come dopo ogni sconfitta, si è sempre costretti a rimettersi in gioco perché la vita stessa è un fluido e dinamico divenire (“panta rei”, oh, oscuro ma affascinante Eraclito!) e guai a chi pensasse di sedersi a riposare comodamente sugli allori ingialliti di una pregressa vittoria.

Sinora le società professionistiche hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei confronti di una Federazione che se ha superato scogli inediti e insidiosi come pandemia e crisi economica lo deve alla determinazione e al puntiglio di un abruzzese di adozione, quel Gabriele Gravina che appartiene alla genia di coloro che non sono per niente disposti a subire soprusi e diktat da parte dei padroni del vapore, o sedicenti tali, che pretendono di comandare il sistema calcio come (spesso malamente) gestiscono le proprie società.

Personalmente mi auguro che da questo dramma sportivo si possa trarre spunto per una seria e integrale operazione di rinnovamento non tanto di uomini, quanto di obiettivi e strategie, con l’intento di elevare interesse e qualità non solo del nostro massimo campionato, ma di tutte le categorie rappresentate.

Passaggio obbligato di questa ormai non più procrastinabile riforma sarà tornare a credere nei vivai, da sempre insostituibili incubatori e vetrine di giovani talenti e come tali presupposto essenziale all’eccellenza e alla competitività del calcio come di qualsiasi disciplina di ciascun Paese.

Mi si dirà che la circolazione dei calciatori professionisti in area UE è libera dal lontano 1995, quando la celeberrima sentenza “Bosman” della Corte di Giustizia Europea rese impossibile alle leghe nazionali porre limiti al numero degli stranieri impiegati.

Vero, ma considerando la “ratio” di quel provvedimento giudiziale nella rimozione di vincoli alla libertà professionale di chi va giustamente considerato alla stregua di qualsiasi altro lavoratore, non vi è dubbio che di converso persista e non sia messa in discussione (neanche dalla Corte con sede in Lussemburgo) la concorrente libertà dei dirigenti di squadre professionistiche di seguire un “modus operandi” ispirato il più possibile alla tutela non solo di casse e bacheche dei club nazionali, ma contestualmente e principalmente dei valori e delle aspettative legittime delle giovani promesse e dei settori giovanili gestiti dalle società grandi e piccole, professionistiche e dilettantistiche, che operano sul territorio nazionale.

Sarebbe questa la migliore occasione per darci finalmente una bella regolata per tornare, oltre che a non avere più tante difficoltà linguistiche nel leggere le formazioni delle squadre, a disputare quelle manifestazioni di vertice cui fino a ieri non pensavamo mai di venire esclusi per non aver digerito … una Macedonia al veleno.

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