Nella morsa della Giustizia (primo capitolo

Recensione di Mauro De Flaviis

Nella morsa della Giustizia” è una nuova pubblicazione, edita da Tabula Fati nel mese di gennaio 2022. Il romanzo, scritto dall’avvocato Domenico Di Carlo, già politico, amministratore sia nella città di Pescara sia nella Regione Abruzzo, esperto di Giustizia, ambienta un crimine nella città di Firenze, attraversata da scandali e sparizione di persone.

Abbiamo deciso di pubblicare a puntate, in accordo con l’amico Di Carlo, il romanzo che vi consigliamo di acquistare in libreria, perché l’avvocato attraverso la sua opera pone in luce il mondo della Giustizia, ovvero della malagiustizia, attraversato spesso da inefficienze e da mancanza di professionalità degli stessi organi giudiziari. Il tema è tanto attuale quanto antico: infatti la riforma della Giustizia rappresenta una delle priorità dell’attuale Governo al fine di modificare la traiettoria, a volte incontrollata, dell’ordine giudiziario e cito i contenuti dei libri ispirati dall’epurato Palamara solo ad esempio.

Il romanzo, basato su una storia vera accaduta a Firenze nei primi anni ’70, mostra come spesso la cattiva applicazione della Giustizia sia riscontrabile proprio nella conduzione delle indagini, fase delicatissima e importantissima, atta a scoprire il colpevole: infatti proprio durante la conduzione delle indagini e all’interno dello stesso sistema giudiziario si incontrano molte volte ostacoli che depistano, che ritardano la burocrazia, che impediscono il corso naturale e corretto degli accertamenti, inficiando questi ultimi, arrecando danni immani a persone innocenti e travolgendo vite a causa di errori altrui.

Dunque la giustizia si manifesta molto spesso come una macchina infernale, impietosa che “uccide”, distrugge, “suscettibile alle parole dell’uno e dell’altro avvocato, alle influenze dei potenti e delle correnti del momento”. 

Ogni processo ha delle incognite. Occorre fortuna. Le incognite nascono da molteplici ragioni. L’autore del romanzo fa dire all’avvocato difensore del giovane imputato: “L’incognita per me è la giustizia divina che soverchia quella umana e ti renderà la libertà terrena. Perciò dobbiamo attendere e sperare …”.

di Domenico Di Carlo

Firenze, 7 settembre 1972

Sergio Cancellieri, nato e vissuto a Firenze, amava profondamente la sua città; fino all’età di ventisei anni visse una vita tranquilla, normale, ricca di felicità, passioni di, delusioni e amori. Era un ragazzo alto, dalle spalle larghe, occhi azzurri, capelli castani, insomma era quello che si definirebbe un “bel tipo”, inoltre aveva un carattere gioviale e una spiccata gentilezza che lo rendono molto piacevole agli occhi delle ragazze.

Un maledetto giorno di settembre viene coinvolto, a torto o a ragione, in una tragica vicenda di omicidio che cambierà radicalmente la sua vita.

Quel giorno Firenze era avvolta in una cortina di misteri e leggera agitazione: nel mese di maggio, in un appartamento del centro storico, era stato rinvenuto il cadavere di una ragazza straniera, forse uccisa per strangolamento. Un evento del genere contribuì fortemente a creare un clima di paura e di inquietudine, che si contrapponeva, per fortuna, a quello di una città fatta di tanti giovani normali, che amavano la vita e volevano solo a essere felici, studiare, lottare per costruire un futuro migliore; a tutto ciò si aggiungeva anche un’aria di festa perché si avvicinava la festa della Rificona (nel linguaggio comune fiorentino, la rificona è un’espressione allegra e scanzonata, rivolta a qualsiasi donna, vestita e truccata con poco gusto, in modo vistosamente stravagante), un evento tradizionale del folklore popolare fiorentino, organizzato in tutte le parrocchie per il calendario liturgico alla vigilia della natività della Madonna. 

L’evento tradizionale si svolge nella piazza della Santissima Annunziata, ma coinvolge anche in altri quartieri cittadini. I giovani ne sono entusiasti perché possono mirare con le cerbottane per incendiare la “rificona”, festeggiare mangiando i piatti delle bancarelle, cantare, ballare e fare baldoria. 

 

Giovanni come Stefano Cortesi, Patrizia Ghersi e Lorenzo Guelfi, universitari nel pieno della loro giovinezza, belli, ben vestiti, sempre con il sorriso sulle labbra. 

Appartenevano famiglie borghesi, ben radicati in quel tessuto sociale, rispettate per il lavoro onesto, l’impegno sociale e la disponibilità nei confronti di chi cercava un aiuto.

I tre frequentavano la stessa facoltà di Scienze Politiche. Talvolta, al mattino, si incontravano in un vecchio caffè tra via dei Servi e Piazza della Santissima Annunziata discutendo, anche con passione, dei problemi legati alla loro età, degli esami da sostenere, senza trascurare anche argomenti gli argomenti più disparati come l’amore e la politica, ponendo un particolare accento sulla politica orientata verso i giovani e verso la creazione di una società più giusta ed egualitaria. 

Durante la notte precedente aveva piovuto a dirotto e c’erano state raffiche di vento che facevano sbattere con insistenza le finestre dei palazzi tenendo sveglia la città. Un clima strano per quel periodo, anche le foglie dei tigli erano cadute per la forza del vento e coprivano ancora umide le strade e i marciapiedi creando uno strato viscido su cui si rischiava facilmente di cadere.

Ma come d’abitudine  i tre giovani si incontravano al solito posto, per prendere una tazza di caffè e andare in facoltà: non potevano mancare alla lezione di storia delle dottrine politiche tenuta dal prof. Mario Ghisenti, un docente severo e freddo, ma sempre disponibile al confronto delle idee e delle tematiche.

Quella mattina, a fatica riuscirono a prendere posto in aula. La lezione era incentrata sul tema “La polis nel pensiero filosofico-politico di Platone”, spiegando uno degli aspetti più interessanti della filosofia di Platone, ovvero la giustizia. Con queste parole, l’accademico iniziò la lezione: 

La dottrina dello Stato culmina nella Repubblica nella concezione della giustizia. La giustizia non è altro che il legame che tiene unità la società, in cui Ciascun individuo ha trovato il suo lavoro secondo la sua inclinazione ed educazione.

La giustizia, quindi, è una virtù tanto pubblica che privata perché con essa viene conservato sia il bene dello Stato che quello delle persone che vivono quella società.

La prima elaborazione della definizione platonica di giustizia è di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto; questo è il diritto di ognuno di essere trattato per quello che è in ragione della sua capacità e della sua educazione. 

Dovete tuttavia tener presente  che concetto di giustizia in Platone è estremamente filosofico, in quanto manca, come lo conosciamo noi in epoca moderna, del concetto di ius, del diritto, dei poteri di azione volontaria nel cui esercizio la persona sarà protetta dalla legge e dall’autorità dello Stato.

Possiamo dire che la filosofia platonica è l’arte del governo, fondata sulla virtù della conoscenza, e la società è una mutua soddisfazione di bisogni da parte delle persone, le cui capacità si integrano tra di loro.” 

La lezione  continuò per circa un’ora, al termine della quale i tre giovani si diedero appuntamento per il giorno dopo.

Domani mattina, se siete d’accordo, ci vedremo alle 10 al seminario di diritto parlamentare?” Chiese Stefano.

D’accordo”

Ci vedremo direttamente all’istituto, perché ho un impegno con mio padre a Prato da un gallerista suo amico. Credo che dovrà esprimere un giudizio di autenticità riguardo un dipinto a colori ricevuto in eredità. Forse di un pittore dell’Ottocento, ma non ne sono sicura, dovrebbe essere Telemaco Signorini”, aggiunse Patrizia con una vocina insicura, quasi a predire l’infausto destino. 

Va bene. A domani.” Così si salutarono tutti con un abbraccio affettuoso.

Il mattino seguente, Patrizia uscì di casa molto presto insieme al padre e, tra uno sbadiglio e l’altro riuscì a sopravvivere alla mattinata, anche se la valutazione richiese decisamente più tempo del previsto, così che solamente verso le nove, padre e figlia riuscirono ad imboccare la strada di ritorno per Firenze.

A causa del traffico caotico e delle zone a traffico limitato, il padre decise di lasciare Patrizia sul lungarno. Si fermò accostando l’autovettura sul lato destro, Patrizia scese e lo salutò: “Ciao babbo, ci vedremo a pranzo intorno alle quattordici; se non potrò esserci per impegni universitari o perché resterò a pranzo con amici, telefonerò alla mamma.”

Bene! Affrettati! Il seminario sta per iniziare, potresti fare tardi!” Nel ripartire, il padre notò dallo specchietto retrovisore che la figlia aveva salutato e si stava intrattenendo in modo amichevole con un giovane mai visto prima, un ragazzo alto, dalla corporatura robusta e con i capelli neri e lunghi. Sul momento non dette peso alla circostanza perché sua figlia era sempre circondata da tanti amici e gli studenti erano davvero tanti, poteva essere un nuovo amico di Patrizia. 

Il seminario di diritto parlamentare iniziò finalmente alle undici e trenta, Stefano e Lorenzo attesero la compagna di corso per tutto il tempo provando una leggera inquietudine. Una volta terminata la lezione, i due ragazzi si consultarono: “Hai notizie di Patrizia?”, domandò Lorenzo, desideroso di ricevere una notizia rassicurante.

Io non so nulla! Lo sai anche te che doveva recarsi con il padre da un gallerista a Prato. Avrà avuto un contrattempo”, rispose Stefano, con un sorriso poco convinto.

Intanto mettiamole da parte gli appunti della lezione e le dispense del professore; domani gliele faremo avere.” 

Patrizia non era tornata a casa per il pranzo, ma la circostanza non suscitava alcuna preoccupazione dato il suo precedente avviso e anche perché spesso restava con gli amici per consumare un pasto frugale e tornare velocemente poi a lezione o a studiare.

Intorno alle sedici finalmente Patrizia telefonò a casa per rassicurare i genitori, dicendo che sarebbe tornata per cena. Però alle ventidue la ragazza non era ancora rincasata e i genitori non avevano avuto più nessuna notizia, neanche dai suoi amici. Con il passare dei minuti e poi delle ore, Federico e Rossella cominciarono a preoccuparsi seriamente. Il silenzio del telefono alimentava i pensieri più bui, del resto erano accaduti tremendi fatti di cronaca nera negli ultimi mesi ed era impossibile non pensarci.

Patrizia non era rimasta mai tanto tempo fuori casa, aveva sempre avvertito puntualmente dei suoi spostamenti. I genitori provarono a immaginare che Patrizia fosse andata con Stefano e Lorenzo alla festa della Rificona, ma questo non giustificava il non averli avvertiti. La madre di Patrizia, Rossella, ormai con i nervi a fior di pelle, decise di entrare nella camera da letto della figlia e, nonostante una grande riluttanza, iniziò a frugare tra le sue carte, i documenti e l’agenda personale posta all’interno dei cassetti della scrivania.

Nella sua agenda Patrizia annotava diligentemente ogni cosa: I suoi appuntamenti, gli orari delle lezioni universitarie, i numeri di telefono degli amici e delle amiche a cui voleva più bene. Fra i vari appunti, trovò i numeri di telefono di Stefano e Lorenzo, ciò le fece pensare che poteva telefonare ai ragazzi, anche perché tra le famiglie c’era una sincera frequentazione: Rossella era docente al liceo dove hanno studiato da giovani gli amici della figlia, e i genitori di questi partecipavano alle manifestazioni culturali e alle mostre di scultura che il marito organizzava annualmente in città

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