Comuni, amministrazioni, fusioni: una lunga storia

di Alessio Basilico

Città stato che scompaiono. Sovrapposizioni giurisdizionali cancellate. Antichi sistemi feudali aboliti. Dall’età napoleonica in poi si sono susseguite le semplificazioni e gli accorpamenti degli enti amministrativi territoriali. Soprattutto nell’Europa centrale e nella penisola italiana città libere, piccole repubbliche, minuscole unità feudali furono spazzate via dal fervore giacobino e dai decenni di guerra che sconvolsero l’Europa. Se i governi restauratori rigettarono i contenuti ideologici della rivoluzione, si guardarono bene dal tornare alla frammentazione territoriale tipica dell’antico regime. Fecero propri i principi di modernizzazione burocratico-amministrativa e in parte ne continuarono l’opera.

Dunque, quando lo stato italiano nacque aveva alle spalle un processo lungo alcuni decenni di semplificazione e accorpamento delle unità territoriali più piccole. Nonostante questo fenomeno, nel 1861 nella penisola sopravvivevano ben 7700 comuni. Si trattava di un numero notevole su cui la legge Ricasoli del 1865 impose il sistema piemontese strutturato in quattro livelli: province, circondari, mandamenti e comuni.

Questo ordinamento restò invariato fino agli anni Venti del Novecento quando il fascismo procedette a una radicale semplificazione con l’obiettivo principale di rafforzare il ruolo centrale dello Stato. Il regio decreto del 2 gennaio 1927 – Riordinamento delle circoscrizioni provinciali – abolì circondari e mandamenti e divise il territorio in 92 province, il solo livello di divisione del territorio nazionale insieme ai comuni, il cui numero risultava ridotto di circa 400 unità rispetto al momento dell’Unità, nonostante l’acquisizione di nuovi territori.

Nel 1927 nacque anche Pescara così come la conosciamo oggi. Divenne una delle 17 nuove province insieme a centri come Aosta, Varese, Rieti, Brindisi, Frosinone, Nuoro. I territori della riconfigurata città adriatica comprendevano quelli di due precedenti comuni: Castellammare Adriatico, appartenente alla provincia di Teramo, e Pescara, compresa nel territorio di Chieti. Il nuovo nome doveva essere quello latino, Aterno, ma poi ebbe la meglio il toponimo già appartenente alla sponda sud. Ne nacquero proteste e scontri. Le autorità intervennero, perseguendo i facinorosi e minacciando punizioni esemplari. Il commissario della Milizia affermò che non sarebbero state tollerate ulteriori manifestazioni; la decisione era definitiva e non ci sarebbero state variazioni. Nel 1928 entrò a far parte del nuovo comune anche Spoltore. Questo assetto territoriale durò fino al 1948.

Erano stati due illustri cittadini a favorire questi sviluppi: Gabriele d’Annunzio e Giacomo Acerbo. Il primo, il sommo letterato, il vate della patria, eroe di guerra, aveva scritto una poesia già nel 1882 sulla fusione dei due centri che sorgevano sulle sponde del fiume Pescara e lo ricordò in una lettera al Duce pregandolo di «consentire che la mia Pescara si congiunga civicamente a Castellammare Adriatico e capeggi una provincia nuova». Specificava poi che Acerbo avrebbe contribuito ad allargarne il territorio includendo ulteriori territori.

Quando nel ’27 arrivò il tanto agognato innalzamento di rango amministrativo, Mussolini non poté fare a meno di comunicarlo di persona al celeberrimo poeta: «Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di provincia. Te lo comunico perché credo ti farà piacere. Ti abbraccio». Per quanto aneddotico, l’episodio è indicativo delle forme di potere tipiche del periodo: la centralizzazione costituiva la dinamica dominante, uomini politici e culturali, dotati del prestigio sufficiente, facevano pressione sulle più alte cariche dello Stato per ottenere risorse per i territori di loro rappresentanza.

La fine della dittatura e il dopoguerra portò a nuovi assetti. La Costituzione introdusse le regioni. Dovettero però passare oltre vent’anni perché questo nuovo istituto diventasse operativo. I primi consigli regionali furono infatti eletti solo nel 1970. Alcuni comuni, come Spoltore, riuscirono a riavere l’autonomia perduta, ma si trattò di episodi isolati che non diedero vita a un vero e proprio trend.

Anzi negli anni più recenti la principale preoccupazione dei legislatori è tornata a essere quella di limitare ulteriormente la frammentazione amministrativa. Così negli anni Novanta si è tentato in ogni modo di favorire gli accorpamenti di paesi con una popolazione inferiore ai 5000 abitanti.

Avvicinandoci ancora di più ai nostri giorni, il D. Lgs. 267/2000 (Testo unico degli enti locali) precisava e valorizzava due istituti come la fusione e l’unione dei comuni, precisandone ruoli e funzioni.

Le unioni si configuravano come enti di secondo grado che nascevano con l’obiettivo di esercitare congiuntamente le principali funzioni e migliorare i servizi offerti ai cittadini. Così pensate, le unioni non dovevano semplicemente accorpare gli enti più piccoli, ma erano aperte a tutti quelli che intendessero migliorare la propria azione amministrativa. Le fusioni continuavano invece a seguire la vecchia logica della semplificazione ed erano riservate ai comuni di piccole dimensioni, specie di area montana.

I cicli economici negativi hanno sempre influenzato questa materia e non poteva essere diversamente con la grande crisi del 2008-2009 e i conseguenti problemi di solvibilità che rischiavano di travolgere il paese nel 2011-12, quando divenne necessario operare un taglio drastico della spesa pubblica. La strada per ottenere quest’obiettivo passava sempre per una semplificazione della macchina amministrativa e una riduzione dei suoi costi. Si è arrivati così alla legge 56 del 2014, nota come legge Del Rio, che obbligava, ancora una volta, tutti i comuni con una popolazione fino a cinquemila abitanti e fino a tremila nelle comunità montane a esercitare congiuntamente una serie di funzioni fondamentali, la cui titolarità giuridica passava all’unione stessa e veniva sottratta ai diversi comuni costituenti.

Può sembrare paradossale affermare che la storia insegna poco, a differenza di quello che si dice solitamente. Al massimo può fornire delle categorie culturali e intellettuali per orientarsi. Forse quelle stesse categorie sono state sfruttate dal 64% dei votanti di Pescara, Spoltore e Montesilvano che nel referendum del 28 maggio 2014 si sono pronunciati a favore della fusione dei tre comuni. Più probabilmente hanno scelto considerando il presente e proiettando le loro comunità in un futuro non troppo lontano. Non sembrano seguirli gli amministratori invece. Dopo la legge regionale del 2018 la grande Pescara avrebbe dovuto vedere la luce nel gennaio 2022. La pandemia ha dilatato i tempi. Il gennaio 2023 è il nuovo limite, ma i lavori delle commissioni sembrano procedere a rilento e non rispondere in maniera definitiva al mandato loro assegnato otto anni fa.

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