AFRICA – fascino senza tempo

di Tonino Bosica

 

“C’è lo spirito della natura, lo spirito del fiume, lo spirito della montagna, e anche lo spirito degli animali, dell’acqua, degli antenati. Lo spirito è ovunque!” – tradizione orale africana

 

L’arte è sempre stata testimone del tempo. Penso alle incisioni rupestri, agli Egizi e ad altri popoli antichi di cui, attraverso vari periodi, con i loro manufatti, abbiamo oggi la possibilità di conoscere evoluzioni, credenze e organizzazioni sociali.

L’arte africana è stata chiamata per un lungo tempo arte del popolo incolto, del popolo incivile, del popolo senza scrittura. Successivamente arte primitiva, cioè un’arte senza regole, non accademica, senza riferimenti. Oggi viene definita arte etnica, guardata ovviamente attraverso l’ultimo secolo con occhi molto diversi. Per penetrare l’arte africana dobbiamo abbandonare i preconcetti, i nostri canoni di lettura occidentale, la bellezza dell’arte classica. Bisogna tener conto dell’uomo immerso nella sua natura, della magia sprigionata dalle forze sconosciute e invocate attraverso i vari riti. Impossibile racchiudere in un pensiero o in queste poche righe tutta l’arte prodotta dalle varie etnie, dislocate principalmente nella parte sub-sahariana. Ci provo, pur sapendo di non riuscire ad essere abbastanza esaustivo. Nei luoghi dove è ritenuta l’origine della nostra umanità, artisti anonimi hanno creato oggetti di grande valore estetico, misteriosi e allusivi. Quando i colonizzatori francesi riportarono in patria statue, feticci, maschere, come souvenir, furono gli artisti in primis ad accorgersi della straordinaria carica espressiva che racchiudevano.

Oggetti nati per altre ragioni, come ad esempio entrare in contatto con gli spiriti degli antenati e degli dei, ma che, decontestualizzati dalla loro magia iniziale, assurgevano ad opere d’arte. Una ventata di freschezza essenziale e quasi tutti i grandi artisti del XX secolo vi attinsero a piene mani.

La celebre opera di Picasso “Les demoiselles d’Avignon”, esposta presso il Museo di Arte Moderna di New York, fu ispirata (per fare un esempio) da una maschera Mahongwe. Il colonialismo italiano, arrivato tardi e toccando principalmente nazioni come Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia, non ci ha fatto conoscere, come era accaduto in Francia, l’arte “negra”. Anche perché al nord, se le statue e le maschere erano presenti lo erano in un modo sporadico. Questo spiega molte cose. In Francia, come in gran parte dell’Europa, ci sono tanti collezionisti, tanti musei, tante gallerie d’arte specializzate in arte africana e una ricca documentazione alla portata di tutti. In Italia sono pochi i collezionisti e poche le pubblicazioni per una corretta divulgazione e conoscenza di tale arte. Pochi i musei, cito i più rappresentativi: a Roma il Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini, in Vaticano il Museo Missionario Etnologico, a Rimini il Museo delle Arti Primitive, a Milano il Mudec (Museo delle Culture) e il Museo di Arte e Scienza, con annesso laboratorio per stabilire la datazione e l’autenticità delle opere.

Solo negli anni ’70 apre a Genova la prima galleria di arte africana, successivamente ne furono aperte a Venezia, poi a Roma, a Bologna, a Milano, etc.

Non sono tante, più o meno sono sempre le stesse e qualcuna apre solo su appuntamento.

 

Lo scultore africano prima di essere autonomo, aveva un lungo apprendistato presso il maestro fabbro che era, a volte, anche lo stregone del villaggio. Un uomo considerato e appartenente spesso a società segrete. Prima di iniziare un lavoro, con attrezzi rudimentali, come possono essere un’ascia e un coltello, lo scultore passava molto tempo in meditazione e in preghiera per rendere poi percettibile il sovrannaturale, la presenza ideologica, lo spirituale. Il materiale usato, quasi sempre il legno, sia duro che tenero, raramente lasciato al naturale, veniva colorato e patinato. Il legno, facile da reperire, ha comunque una sua deperibilità, una durata che non è mai andata oltre 50/70 anni lasciato all’aperto sotto al sole e alla pioggia. Per questo motivo, attraverso i secoli, le varie tribù hanno ripetuto, con i loro stili e con piccole variazioni, sempre gli stessi modelli. Come non menzionare a questo punto le straordinarie statue LUBA e SONGYE della Repubblica Democratica del Congo? La statua africana inconfondibile per forma, volume, ritmo, spesso è stata impreziosita ulteriormente con perline di vetro di Murano, importate dall’Africa fino ai primi anni ’40. Come non menzionare le incredibili e raffinatissime maschere dei BAULÈ, dei YAOURÈ, dei DAN della Costa D’Avorio, e dei MENDE della Sierra Leone? La maschera, indossata durante la danza, riti di iniziazione, riti funebri, serve a chi la indossa per entrare nel soprannaturale, nell’ultraterreno, nel sacro.

Si fa anche un largo uso della terracotta. La pietra, non sempre idonea per la propria durezza, veniva usata principalmente per piccole statuette. Con il bronzo, lavorato a “cera persa”, gli artisti hanno lasciato capolavori indiscussi, dal Benin addirittura grandi portali. Il ferro battuto, come tradizione, veniva lavorato con grande abilità un po’ ovunque, ma i DOGON del Mali ne detenevano la supremazia. In oro, riservato a uomini e donne di alto rango, troviamo superbi gioielli lavorati con varie tecniche. Abili e raffinati, in questo caso, si sono distinti gli ASHANTI del Ghana. Con l’avorio (zanne di elefante) crearono anche oggetti di uso quotidiano. Eccelsi scultori-incisori dell’avorio furono gli YORUBÀ della Nigeria.

L’arte l’hanno espressa anche attraverso l’uso di materiali poveri e deperibili, come il vimini, la rafia, le pelli colorate e intrecciate, i tappeti e i tessuti stampati con la tecnica del batik. Sono centinaia i gruppi e sottogruppi sparsi per l’intero continente, impossibile citarli tutti.

Nell’Africa di oggi, in atto dagli anni Sessanta la modernizzazione, se l’artista non è emigrato in Europa o in America, ha comunque nome e cognome e le sue opere (pittura o scultura) sono sul mercato, come quelle di tanti artisti occidentali. Lo scopo di questo modesto contributo è quello di destare curiosità nel lettore e invitarlo ad approfondire per suo conto. In questo spazio, ritornerò senz’altro sull’Africa perché, come dicevo all’inizio, l’argomento è vasto. Lo farò descrivendo una etnia, mettendo a fuoco la sua gente, le sue usanze, il suo territorio e i suoi manufatti d’arte.

Mi permetto intanto di suggerire, per chi vuole saperne di più, alcuni autori ed editori che hanno dato vita e diffusione alla conoscenza di questa arte dal fascino senza tempo:

 

  • Ezio Bassani, grande viaggiatore, divulgatore, collezionista, autore di AFRICA CAPOLAVORI DA UN CONTINENTE, edito da ArtificioSkira;
  • Marc Ginzberg autore di AFRICA. ARTE DELLE FORME, edito daSkira;
  • Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano autori di L’AFRICA DELLE MERAVIGLIE, Silvana Editoriale;
  • Egidio Cossa e Jean-Louis Paudrat con PASSIONE D’AFRICA, edito da Officina Libraria;
  • Sergio Caminata con NDEBELE, Federico Motta Editore.

 

Nella illustrazione: maschera facciale Kidumu, in legno policromo del gruppo BATEKÈ del bacino del Congo. Nella maschera di circa 30 cm di diametro, con piume e rafia come ornamento, si evidenzia il ritmo dell’intaglio in una composizione geometrica. Rappresenta un volto, ha lo spessore di circa 4 cm e sul retro è alleggerita da un incavo, la parte bassa più ampia della parte alta, divisa da una striscia lasciata intatta. Questa maschera da ballo, durante il rito, può essere legata alla testa, ma può essere tenuta anche stretta tra i denti tramite la striscia di legno.

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