Angelo Camillo De Mèis medico e filosofo

di Pasquale Criniti

Angelo Camillo De Mèis nacque il 14 luglio 1817 a Bucchianico, un paesino situato sulle falde orientali della Maiella.

Il padre Vincenzo era medico, carbonaro e poi mazziniano, la madre Giulia Carbone proveniva da una famiglia benestante, amica di quella degli Spaventa.

Compì i primi studi nel paese natale con la guida di preti e monaci e poi frequentò il regio collegio di Chieti dove ebbe compagni Bertrando e Silvio Spaventa.

Proseguì gli studi a Napoli, dove giunse verso il 1840, nel pieno fervore del rinnovamento culturale della città con la fioritura di grandi scuole private di diritto, letteratura e filosofia e la presenza di numerose istituzioni accademiche e scolastiche di carattere scientifico che avevano fatto della Napoli del 1700 e degli inizi del 1800 uno dei grandi centri europei, paragonabile a Londra, per la concentrazione di istituti per lo studio delle scienze naturali.

Oltre a frequentare le scuole di Basilio Puoti e poi di Francesco De Sanctis, dove ebbe condiscepoli alcuni dei suoi amici più cari, come Luigi La Vista, Diomede Marvasi e Pasquale Villari, seguì le lezioni del geologo Palli e del medico Pietro Ramaglia.

Nel 1841 divenne socio dell’Accademia degli aspiranti naturalisti, della quale divenne presidente nel 1848.

Nel 1843 fu assunto come medico aggiunto all’ospedale degli Incurabili e divenne anche titolare di una scuola privata dove insegnava anatomia, patologia, fisiologia e scienze naturali.

Dopo la promulgazione della costituzione del ’48 nel Regno di Napoli, venne eletto deputato al Parlamento per la circoscrizione Abruzzo Citra e fu tra i quaranta deputati che nella notte tra il 14 e 15 maggio del ’48 rimasero nella sala di Monteoliveto, sede del Parlamento, e che furono perciò incolpati di aver incitato il popolo alla rivolta scoppiata il 15 maggio.

Sostenne inoltre la protesta di Pasquale Stanislao Mancini avverso la repressione operata dalle truppe borboniche contro i manifestanti e condivise l’accusa di tradimento al re e fu quindi costretto a dimettersi il 18 giugno ’48 da professore di anatomia e di medicina teorico – pratica e da rettore del Collegio medico.

Ricercato come oppositore, fu per poche ore a Bucchianico dove accorse per rivedere il padre malato, che trovò morto il 19 febbraio 1849, prima d’intraprendere la via dell’esilio inizialmente a Genova, poi a Torino, ed infine a Parigi dove rimase fino al 1853.

Nella capitale dello stato francese, patria della Rivoluzione, De Meis trovò la personificazione del suo ideale di popolo, la concretizzazione del suo problema politico: non una plebe ignorante, incosciente del suo valore e abbrutita dai bisogni naturali non soddisfatti ma, come scrisse il 6 novembre 1851 a Bertrando Spaventa, “un grandissimo e nobilissimo popolo, il primo certamente di tutti. Il popolo parigino è l’ideale del popolo moderno: a qualunque più piccolo operaio t’accosti, subito comprendi ch’egli conosce ottimamente il suo valore e il suo interesse, ed è profondamente penetrato di tutte le tendenze del suo paese, e sa meglio di me e di te tutte le questioni politiche del giorno, perché quello che in noi è un arzigogolo, in lui è un sentimento reale”.

Sempre nel ’51, De Meis annotava come “fuori delle grandi città specialmente manifatturiere la plebe, li cafoni francesi siano un pecorame barbaro e incolto, che non capisce niente e non è punto al di sopra delle nostre bestie di Napoli”.

Ritornò in Italia nel ’53 ed ebbe tra il ’56 ed il ’57 quotidiani contatti con Bertrando Spaventa a Torino, dove fu fino al 1859, dopo un breve soggiorno a Taggia, presso l’amico Giovanni Ruffini che forse lo prese a modello per il suo romanzo “Il dottor Antonio”.

In quegli anni la filosofia hegeliana divenne per lui la base risolutiva di ogni problema scientifico e pratico.

Egli stesso lo diceva, scrivendo il 5 settembre 1857 a Francesco De Sanctis: “Io facevo la parte di quello che giura sulla parola del maestro, cioè Hegel, ed il povero Villari ne è rimasto scandalizzatissimo e diceva che non si sarebbe mai aspettato di trovarmi tanto indiavolato e invasato dell’hegelismo.”

Fu chiamato nel 1859 da Luigi Carlo Farini per la cattedra di fisiologia all’università di Modena, da cui prima una malattia, poi gli avvenimenti del Mezzogiorno lo allontanarono rapidamente e lo riportarono a Napoli, dove rimase fino al 1863, partecipe dei fatti conclusivi della spedizione garibaldina e collaboratore del De Sanctis del quale fu segretario, nei mesi in cui questi resse la direzione dell’Istruzione nel governo provvisorio, avviando la riforma dell’università e delle antiche istituzioni accademiche napoletane.

Fu deputato al Parlamento del Regno d’Italia dal 1861 al 1867, sedendo tra i ministeriali.

Chiamato a Bologna per la cattedra di storia della medicina nel 1863, vi rimase fino alla morte.

Partecipò intensamente alla vita scientifica della città in contatto con gli esponenti maggiori di essa: da Marco Minghetti ad Augusto Murri, da Pietro Siciliani a Francesco Fiorentino.

Collaborò alla “Rivista bolognese” e fu al centro di una polemica in occasione della pubblicazione nel 1868 su di essa del saggio politico – filosofico “Il sovrano” che lo oppose al Carducci.

Non si sa né dove né quando fu iniziato alla Massoneria, è certo tuttavia che nel 1867 fu membro della Loggia Felsinea di Bologna.

Nel 1875 sposò la contessa Ippolita Patellani, vedova con due figli, Antonio Unico e Gigia.

Il suo naturalismo lo spinse a cercare un fondamento filosofico – spirituale alle scienze della natura, che egli trovò nell’idealismo di Hegel.

Fu amico intimo e collega del filosofo Pietro Siciliani, del quale condivise in parte la speculazione intorno al positivismo.

Morì a Bologna il 6 marzo 1891.

Il suo collega Augusto Murri ne pronunciò l’orazione funebre rievocandone “la sterminata cultura, la critica acuta e felice, la versatilità dell’ingegno e le virtù civili”.

Un articolo anonimo pubblicato sulla “Illustrazione italiana” del 29 marzo 1891 suggeriva invece di distinguere la valutazione dell’altissima figura morale del De Meis ed il suo sincero e generoso impegno politico dai meriti culturali che, successivamente, Benedetto Croce e Giovanni Gentile definirono poco consistenti e viziati da una inadeguata comprensione della dottrina hegeliana.

Angelo Camillo De Mèis viene citato, di passaggio, nel romanzo di Luigi Pirandello “Il fu Mattia Pascal”.

Un busto marmoreo a lui dedicato si trova nella città di Roma al Pincio.

Lascia un commento