Appunti di viaggio: San Clemente a Casauria (terza e ultima parte)

di Antonio Lafera

(..) Oggi, come ci eravamo proposti il mese scorso, parliamo della terza parte di San Clemente a Casauria. Dopo esserci soffermati all’esterno della chiesa, affascinati da opere che raccontano di cose antiche, quasi perse nelle pieghe della storia e della fede, entriamo nella penombra accogliente del monumento. Appena entrati e dopo aver abituato gli occhi alla penombra accogliente, ci volgiamo indietro e guardiamo in alto. Notiamo subito l’oratorio posto sul nartece (camminamento sopraelevato dal quale i novizi osservavano i vari momenti della liturgia) (1).

Esso è diviso spazialmente da tre arcatelle che ai lati hanno piccole colonne di stile corinzio. Ruotando poi lo sguardo osserviamo che l’interno della chiesa si presenta con tre navate longitudinali divise in sette campate ogivali e il transetto adornato da una sola abside semicircolare. La copertura, oggi a capriata con mattoni dipinti a losanghe, originariamente doveva presentarsi nel transetto con volta a crociera sostenuta da pilastri mentre era probabilmente a tetto nelle navate, come consueto d’altronde negli edifici sacri del XII secolo. Il completamento del coro, intorno al 1230, pose fine a una prima fase dell’edificazione. La chiesa subì poi, in seguito ai terremoti, alcune trasformazioni: i pilastri – accorgimento antisismico anziché meditata scelta architettonica – andarono probabilmente a sostituire o inglobare le colonne durante i lavori di restauro fatti effettuare dopo il 1456 da Jacopo di Sangro che, come detto precedentemente, fece affrescare, sul terzo pilastro a destra, lo stemma di famiglia. Altri lavori di ripristino, dopo un terribile terremoto, furono eseguiti nel 1609. Altri ancora avvennero nei secoli successivi. Carlo Ignazio Gavini, architetto e storico dell’arte romano, incaricato agli inizi del Novecento di seguire il restauro del monumento, in un suo scritto ne ripercorre tutte le fasi di trasformazioni, argomento questo quasi esclusivamente di interesse specialistico per cui ognuno può autonomamente approfondire la ricerca. Arrivati di fronte all’altare scendiamo agevoli scale ed entriamo nella cripta, ambiente destinato in genere a tomba dei santi e alla custodia di sacre reliquie: essa è composta da nove piccole navate longitudinali per due trasversali, con le campate che hanno la volta a crociera. Per la sua costruzione, come spesso accadeva, è stato utilizzato materiale di spoglio proveniente da edifici romani. L’abbazia sorgeva infatti vicino al pago (villaggio) di Interpromium, distrutto da un terremoto, e l’urgenza di coprire la cripta, per mettervi subito in salvo le spoglie dei martiri, spinse al reimpiego di materiale preesistente. Fra quello qui riutilizzato distinguiamo i quattro capitelli corinzi della parte absidale e la colonna miliare in cui si vede l’iscrizione che ricorda gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano che fecero continuare i lavori di restauro della via Claudia, iniziati negli anni 360 – 63 dall’imperatore Giuliano. Alla cripta si accede da due scale poste alle estremità delle navate laterali, ricordiamo inoltre che essa fu utilizzata come cimitero per tutto il Medioevo. Risaliamo ora nella chiesa e osserviamo, fra il terzo e quarto pilastro sulla destra della navata centrale, lo splendido ambone posto, secondo le abitudini abruzzesi e meridionali italiane, su colonne. L’opera è probabilmente di maestranze adunate da Leonate intorno al 1176 maestranze di notevoli capacità artistiche, è logico infatti pensare che l’abate chiamasse i maestri più in voga per l’esecuzione di varie opere fra cui l’ambone che forse non era completato alla sua morte dal momento che il Chronicon non ne fa menzione (2).

L’ambone poggia su quattro colonne, che hanno i capitelli adornati di palme (simbolo del martirio e della vita eterna), le quali dapprima chiuse (nel primo sulla destra) aprendosi gradualmente nei successivi in senso antiorario, simboleggiano l’animo del cristiano che si apre ascoltando le parole del predicatore: infatti su di esso il sacerdote predicava e narrava le sacre scritture. Interessanti sono le decorazioni degli architravi: nella parte rivolta all’ingresso un tralcio di vite che parte dalla bocca di un drago, simbolo del paganesimo che viene sconfitto (l’ornamento decorativo che si sviluppa dalla bocca di un animale è molto frequente in Abruzzo) mentre nella parte di fronte al candelabro una decorazione simile nasce da foglie disposte alle estremità. L’iscrizione che si dispiega sopra invita chi predica a una regola di vita coerente con ciò che va enunciando: è quindi un monito al religioso affinché sia anche lui un buon cristiano. Nel lato prospiciente l’ingresso tre plutei da cui spiccano tre grandi fiori ad altissimo rilievo di notevolissima fattura, sormontati da alberelli: qui il rosone abruzzese può dirsi giunto al più alto grado decorativo. Nel lato di fronte al candelabro: al centro, sotto il leggio, un’aquila che poggia gli artigli su un libro che a sua volta poggia su un leone. Qui il simbolismo ci racconta dell’occhio di Dio che tutto vede (aquila) poggiato sulle sacre scritture a loro volta poggiate sul Cristo(leone); nei plutei laterali fanno bella mostra di sé due rosoni. Gli altri due simboli degli evangelisti (il bue e l’angelo) dovevano essere nella parte rivolta all’altare che è da ritenersi la meno riuscita: probabilmente un terremoto dovette danneggiare il terzo e il quarto lato dell’ambone, e quando si fece il restauro trovarono posto in questo lato anche i frammenti caduti dal quarto. Nell’ambone – fra i 32 esistenti in Abruzzo uno dei più artistici con quelli di Corfinio, Bominaco, Moscufo e Cugnoli – veniva esposta la reliquia di San Clemente nei giorni a lui solenni. Accanto all’ambone si presenta con la sua altezza e con la raffinatezza dell’esecuzione il candelabro o cero pasquale che si erge su una base a forma di ara con le teste di leone ai quattro spigoli, probabilmente proveniente da un tempio pagano (fine IV – inizio V sec. d. C.) e qui reimpiegata. La colonna attuale (in pietra di Pescosansonesco) andò a sostituire quella originaria distrutta dal terremoto del 1349. Essa va datata intorno al 1240; l’interruzione dei lavori con la morte di Leonate (1182) ne rimandò molto più in là l’esecuzione. Nella parte superiore del candelabro un capitello, che si compone secondo lo schema francese già visto in S. Giovanni in Venere di otto foglie a uncino ripartite in due ordini a forma di bacca entro cui si sviluppa un ramoscello, sostiene un’edicola a due piani che doveva avere dodici colonnine delle quali oggi rimangono solo le sei del primo piano. Il candelabro vuole simboleggiare Gesù Cristo: infatti nelle dodici colonnine si identificano gli apostoli, mentre il grande cero collocato sulla sommità rappresenterebbe il Signore risorto e nelle candele sovrapposte sono da individuare gli stessi seguaci istruiti dopo la Resurrezione (3).

Questo di San Clemente è uno dei tre candelabri monumentali per ceri pasquali esistenti in Abruzzo (gli altri due sono a S. Maria Arabona e S. Maria Assunta di Bominaco). Andiamo ora con passo lieve verso il transetto dove al centro si erge il ciborio sostenuto da quattro colonne che poggiano su una predella con un’iscrizione che ricorda che insieme ai resti di San Clemente sono conservati nella chiesa anche quelli dei SS. Pietro e Paolo. I capitelli di tre colonne presentano ornamentazioni a palma, il quarto ha invece una composizione di foglie massicce in quattro ordini. Il prospetto (in cui l’arco trilobato presenta ai margini un’Annunciazione) è scandito da sette formelle, con la Vergine fra due angeli in quelle centrali e i simboli dei quattro evangelisti (l’angelo, il leone, l’aquila, il bue) nelle altre. Nell’arco trilobato di sinistra una testa con tre volti (la Trinità), da due dei quali escono Adamo ed Eva. Nell’arco di destra due angeli reggono uno stemma. Nella facciata posteriore è invece ripetuta la storia della fondazione dell’abbazia, con gli stessi caratteri che si ritrovano sull’architrave del portale maggiore. Il ciborio è da ritenersi manufatto quattrocentesco del periodo dei Sangro (denunciato d’altronde dagli angeli che reggono uno stemma). Sotto il ciborio, in splendida solitudine c’è l’altare: il luogo in cui il sacro è presente con più intensità, centro di attrazione spirituale dove nella liturgia l’uomo incontra Dio. Esso è più elevato rispetto a ciò che lo circonda! In San Clemente l’altare è costituito da un sarcofago paleocristiano (datato fra il V e IV secolo). Il fronte è diviso in cinque pannelli: quelli pari sono strigilati, presentano cioè una serie di scanalature ad andamento ondulato – motivo decorativo ricorrente nei monumenti funerari romani -; quelli dispari mostrano invece alcune figure (a sinistra S. Pietro fra le guardie, in quello centrale Gesù tra SS. Pietro e Paolo in quello di destra una figurazione di difficile attribuzione). Il sarcofago, a cui furono tolte le figure laterali, fu collocato sotto il ciborio in data imprecisata, probabilmente andando a sostituire un altare caduto in rovina. Il Calore, che durante i lavori di restauro vi aveva praticato un’apertura nella parte posteriore, eliminò, in quest’occasione, lo strato di cemento che nascondeva in parte le figure. La mensa è stata rotta in tempi recenti durante un tentativo di furto del reliquiario, allora custodito nel sarcofago appoggiato al muro della navata sinistra che fu portato nel 1931 in San Clemente dalla chiesa madre di Castiglione a Casauria. Esso è opera quattrocentesca che ha al centro del lato più lungo della cassa uno stemma araldico (forse dei Brancaccio). Vi è raffigurato, sdraiato con le mani ornate di un anello che reggono un libro, Berardo Napoleoni vescovo di Boiano dal 1364 al 1390. Sul lato destro del transetto, quasi appoggiato al muro notiamo l’urna d’alabastro in cui probabilmente, dopo averle avvolte in un manto, l’imperatore Ludovico II pose nell’872 le ossa di San Clemente. Essa conteneva anche reliquie dei santi Pietro e  Paolo e fu rinvenuta nel 1104, vicino l’altare, dal cardinale Agostino mandato da papa Pasquale II a verificare se nell’abbazia fossero ancora custoditi i resti del Santo. Profanata e danneggiata nel 1799, quando le truppe francesi alloggiano nella chiesa devastandola e sottraendo innumerevoli opere d’arte, l’urna venne successivamente recuperata per caso da Pierluigi Calore che aveva praticato un foro nella parte posteriore dell’altare, durante i lavori di restauro terminati nel 1891. Gli abitanti della zona probabilmente l’avevano nascosta per evitare che cadesse nelle mani degli invasori e in seguito se ne era persa la memoria; solo per caso o forse per l’intuizione dello studioso essa è tornata a catturare l’attenzione del fedele e del visitatore.

Lo scrivere di questa mirabile opera architettonica, monumento nazionale, patrimonio dell’UNESCO, è riduttivo rispetto a quello che gli occhi ci possono trasmettere mentre la percorriamo e poi mentre assorti la osserviamo seduti su un’urna romana, nell’accogliente e ombroso giardino. Ci riposiamo qualche minuto prima di entrare nel museo annesso dove altro e altro ancora catturerà la nostra attenzione, osservando reperti di innumerevoli secoli e tabelloni che raccontano di storie infinite! Ci rendiamo conto che ciò che è rimasto, pur nella sua eccezionale bellezza, non è che una parte di quello che doveva essere quando re, imperatori e papi la visitavano, con profonda deferenza.

Note

  • Questa disposizione era propria delle cattedrali francesi ed è chiara testimonianza dell’influenza borgognona in Abruzzo. In Italia, questa soluzione architettonica è stata piuttosto rara; nel meridione la vediamo poi soltanto nella chiesa del Santo Sepolcro di Barletta.
  • Ricordiamo che la realizzazione degli amboni nella nostra regione ha una cronologia ben precisa: dal 1132 (ambone di S. Maria in Cellis di Carsoli) al 1267 (ambone di S. Stefano di Corcumello). In questo arco di tempo la quantità e la validità artistica fanno della produzione degli amboni una peculiarità abruzzese. Nei secoli successivi, nelle Marche, in Emilia-Romagna, in Toscana essi furono realizzati nello stile abruzzese.
  • Il cero pasquale, che si fa derivare dalla colonnetta incerata su cui il patriarca d’Alessandria d’Egitto scriveva i risultati delle osservazioni degli astronomi incaricati di indicare quale fosse la domenica successiva il quattordicesimo giorno della luna di marzo in modo da stabilire il giorno di Pasqua, ricorda anche la colonna di fuoco che illuminava il cammino degli ebrei partiti dall’Egitto.

PRIMA PARTE https://ilsorpassomts.com/2020/01/26/appunti-di-viaggio-san-clemente-a-casauria-prima-parte/

SECONDA PARTE https://ilsorpassomts.com/2020/03/10/appunti-di-viaggio-san-clemente-a-casauria-seconda-parte/


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