Serramonacesca (Pe). Abbazia di San Liberatore a Majella

Appunti di viaggio

Serramonacesca (Pe). Abbazia di San Liberatore a Majella

di Antonio Lafera

Oggi, con un gruppo di amici di vecchia data, decidiamo di fare una gita verso la Maiella nordorientale. É una bella giornata di sole, fresca e luminosa. Visiteremo l’abbazia di San Liberatore situata nel paese di Serramonacesca posto alle pendici del Monte Piano di Taricca nei pressi del fiume Alento, immerso in una natura assolutamente incontaminata. L’Alento, che nasce a Serramonacesca proprio dietro l’abbazia, attraversa colline dalla morbidezza classica del nostro territorio pedemontano e si immerge nel cuore del Parco Nazionale della Majella per poi sfociare in Adriatico nella zona di Francavilla. Dalla nazionale Tiburtina, venendo da Pescara, dopo Brecciarola, si incontra un bivio sulla sinistra che porta a Manoppello, dove è quasi d’obbligo visitare il Santuario del Volto Santo. Lì si conserva un velo che secondo la tradizione ha coperto il viso di Cristo morto e per questo ne riproduce le fattezze. Grande è la devozione delle genti d’Abruzzo per questo oggetto sacro. Dopo una decina di chilometri, percorsi fra uliveti e boschi di querce, incontriamo un bellissimo paese sulla “crosta” di un dirupo: Serramonacesca. Ci fermiamo pochi minuti in un bar all’inizio del paese dove sorseggiamo un ottimo caffè ascoltando qualche notizia sul territorio raccontate dal simpatico gestore. Rientrati in macchina, dopo pochi minuti di percorso entriamo in una valle dove si staglia maestosa l’abbazia di San Liberatore che sicuramente ha caratterizzato la storia di questo piccolo borgo fondato e curato in passato soprattutto dai monaci. Del resto il nome lo dice: serra dei monaci. Monaci benedettini che la costruirono oltre mille anni fa. Il nome del paese, la serra dei monaci, induce a pensare come questo nucleo di monaci insediatisi nell’abbazia sia stato un vero e proprio motore di sviluppo per il territorio. A questo punto è opportuno dare alcune notizie storiche che ci permettono di inquadrare la nostra visita nel tempo e nello spazio. Alla caduta dell’impero romano nel 476, l’Abruzzo, che non esisteva come tale ma rientrava nella IV regione augustea “Sabina et Samnium” poi “Provincia Valeria” con Diocleziano, subì un breve periodo di dominazione ostrogota di circa 70 anni e un corto interregno bizantino fino al 568, quando fu invaso dai Longobardi. Serramonacesca, come tanti altri paesi del territorio, fu fondata da piccoli gruppi di famiglie, ognuno definito “fara” (molti paesi d’Abruzzo oggi hanno conservato nell’etimologia del loro nome il termine “fara” per esempio Fara San Martino, che subito ci ricorda un buon piatto di pasta; Fara filiorum Petri e altri). In seguito i Longobardi divisero l’Italia centrale e meridionale in Ducato della Tuscia, Ducato di Spoleto e Ducato di Benevento i cui confini erano il fiume Pescara sull’Adriatico, l’altipiano delle cinque miglia e l’attuale Parco Nazionale d’Abruzzo a ovest verso i monti.

Nel 774 i Longobardi furono sconfitti dai Franchi che sostituirono solo le strutture di comando senza operare genocidi, come invece erano abituati a fare i vinti. Dopo alterne vicende questi ultimi furono sconfitti definitivamente da Carlo Magno nell’anno 781, proprio sul posto ove sorge l’abbazia. Carlo avrebbe quindi deciso di far costruire una chiesa sul luogo della battaglia e dedicarla al culto del Divino Liberatore. I Longobardi, sebbene sconfitti, conservarono il ducato di Benevento (pagando un vassallaggio all’imperatore), ma cedettero il gastaldato di Chieti ai Franchi il cui Sacro Romano Impero già arrivava a Teramo (“Aprutium” da cui in seguito derivò il nome Abruzzo). Con l’acquisizione del chietino la nostra regione cominciava ad avere la struttura odierna.

Si sa per certo, da documenti e testimonianze, che la Badia di San Liberatore a Majella esisteva da molto prima dell’anno 884 (si pensa che la prima costruzione sia cominciata qualche anno prima dell’800) e godeva di una posizione di privilegio che la ponevano a capo dei beni e dei monasteri cassinesi d’Abruzzo, avendo il territorio da Pescara al Trigno sotto la sua giurisdizione.

Nell’anno 884 quindi la Badia era ricca e potente, e godeva di grande prestigio e autorità: una vera e propria cittadella con opifici, officine, laboratori di ceramica, mulini, fornaci e frantoi. All’interno funzionava un “lectorium” per gli studi religiosi, uno “scriptorium” che realizzava raffinati codici miniati e di conseguenza una ricca biblioteca. Successivamente ci furono periodi di fulgore e periodi di decadenza: basti ricordare il terremoto del 990 che la rase al suolo.  Dopo qualche anno fu ricostruita dal monaco Teobaldo che agli inizi dell’XI secolo dette una descrizione del sito, allora in pessime condizioni, essendovi giunto per un primo sopralluogo, e riportava le sue impressioni nel “Commemoratorium” descrivendo la chiesa come “piccola e oscura”. Teobaldo era di nobile famiglia dell’Abruzzo teatino.  La ricostruzione fu di notevole importanza, anche perché il monaco era valente architetto avendo curato in precedenza strutture tardo-antiche e paleocristiane. Anche quando Teobaldo tornò a Montecassino, dopo dodici anni di permanenza in Abruzzo, continuò da lontano a dirigere progetti che in qualche modo potessero continuare a promuovere l’importanza e la bellezza dell’edificio.

 

Nella parete dell’abside della navata centrale si notano affreschi, non sempre ben conservati, che sintetizzano alcuni avvenimenti di particolare importanza per il monastero, e raggruppano alcuni grandi personaggi della storia religiosa del territorio: San Benedetto (la cui immagine, corrosa dall’umidità, è quasi completamente scomparsa) con il libro della sua “regola” in mano; l’abate Teobaldo, che regge la Chiesa di San Liberatore, da lui fatta risorgere all’inizio del secolo XI (mantenendo la posizione planimetrica dell’abbazia carolingia, sud-est/nord-ovest), nell’atto di porgerla a San Benedetto. Vedremo in seguito l’eccezionale importanza dell’affresco per ricostruire la forma originaria del monumento.

L’abbazia raggiunse il massimo splendore intorno al 1200 circa; successivamente si alternarono periodi di decadenza e di ripresa con perdita e ricostruzione del patrimonio artistico. Di sicuro il periodo più sfortunato fu quello vissuto nell’anno 1806, quando il nuovo decreto di Napoleone, che prevedeva la soppressione degli ordini monastici, sancì la sua caduta. Fu spogliata di ogni bene, di qualsiasi opera d’arte, arredo o libro sacro diventando addirittura la sede del cimitero del paese fino alla fine degli anni ’60. Se consideriamo che in origine era completamente affrescata e ricca di manufatti artistici, è come se oggi fosse rimasta solo la struttura portante come per un palazzo allo stadio della struttura in cemento armato: eppure anche così è bellissima e coinvolgente.

Richiamiamo alcune caratteristiche dello stile romanico del monumento:

  • grandi spessori delle murature in pietra della Maiella;
  • pilastri al posto delle colonne;
  • tre navate, la centrale di larghezza doppia delle laterali;
  • la facciata divisa in varie altezze che richiamano l’interno ove il rapporto fra larghezza e altezza è rigorosamente 1/1.8;
  • archetti pensili sia nei sottocornicioni dei tetti sia come guarnizione alla facciata;
  • il rosone;
  • le piccole finestre. Tutte le misure della costruzione seguivano le regole auree elaborate con il Sator o “quadrato magico” il cui uso era conosciuto solo dai “mastri costruttori” e di cui abbiamo parlato in occasione della visita di San Tommaso.

Entriamo in silenzio e un’atmosfera suggestiva ci avvolge assieme a una luminosità dolce e diffusa. Al suo interno la facciata presenta due semicolonne che sono allineate con i pilastri quasi a sorreggere gli archi divisori delle enormi navate: esse servono a stabilire una corrispondenza con le semicolonne che si trovano ai lati dell’abside maggiore. Anche la facciata dunque è stata ampliamente modificata sotto la direzione dei lavori di Teobaldo: infatti essa presentava tre portali e un portico poi distrutto (vedi affresco). Non tutti i monaci successivi però furono d’accordo con i cambiamenti realizzati da Teobaldo. In seguito il progetto originario fu trasformato dagli abati Desiderio e Adenolfo.

Il pavimento a mosaico di pietre policrome, datato attorno al 1275, di eccezionale fattura, per secoli dismesso e conservato altrove, è stato ricollocato dopo gli ultimi restauri e presenta il motivo a nodo, detto “nodo di Salomone”. Purtroppo i due terzi sono andati dispersi.

Tra la navata centrale e il presbiterio si notano i resti dell’arco trionfale sotto il quale passavano gli imperatori che, per quanto potenti, si dovevano inchinare: esso indicava simbolicamente la gloria riservata a Cristo, rispetto ai potenti della terra. Il centro della chiesa, orientata est-ovest (sorgere del sole) è l’altare. L’interno è diviso in tre navate (la centrale doppia delle laterali), scandito da 12 pilastri (metafora visiva dei 12 apostoli) che conducono verso la vita eterna. I pilastri sono privi di base (in origine o per successive rielaborazioni? Non ci è dato di sapere allo stato attuale). Le tre navate sono prive di transetto e danno direttamente sul presbiterio che contiene l’altare.

Osserviamo con interesse il piano del pavimento della chiesa che presenta due pendenze: ovest-est in salita che chiaramente vuole simboleggiare il percorso faticoso per arrivare alla vita eterna; l’altra sud-nord non è di immediata comprensione e ci sorprende la spiegazione data da un simpatico monaco. Essa serviva per ripulire il pavimento che di notte doveva ospitare centinaia di pellegrini i quali non potevano dormire all’esterno sia per il clima che per gli animali pericolosi delle selve circostanti: lupi, orsi, cinghiali. Al mattino i monaci versavano grandi quantità di acqua che portava via lo sporco, lungo la pendenza sul lato nord, poi veniva incanalato verso il fiume.

 

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