Oltre l’olezzo dello stallatico. Il puzzo del compromesso urbanistico al ribasso

Oltre l’olezzo dello stallatico. Il puzzo del compromesso urbanistico al ribasso

Aldo Cilli, architetto, PhD in Urbanistica, Membro Effettivo e Segretario della Sezione INU Abruzzo e Molise

 Un singolare fatto di cronaca consente di parafrasare una celebre frase di Paolo Borsellino e, molto più utilmente, di proporre una riflessione sul futuro delle nostre città. A Montesilvano, terza città d’Abruzzo (la meno città di tutte), in una notte estiva, ignoti hanno imbrattato un nuovo edificio con stallatico e insulti indirizzati a “palazzinari” e istituzione municipale. Un oltraggio affatto goliardico, da condannare per il danno arrecato a chi lo ha subito (e alla città) che tuttavia ha preso a bersaglio, più che l’edificio in sé, la gestione comunale dell’urbanistica. L’atto è da condannare fermamente per il danno arrecato, in solido e in immagine, a coloro che lo hanno subito (città compresa). Il gesto però scuote una comunità intorpidita, abituata a sperequazioni, devianze, anomalie (soprusi?), stimolando più in profondità qualche considerazione che porti in luce “la luna e non il dito” che l’ha resa visibile. Argomenti che, senza tecnicismi, contribuiscano a tracciare alcune prime linee di demarcazione tra passato e futuro nelle scelte da compiere per cambiare il corso delle cose.

La realizzazione di questa palazzina (come di altre), un fabbricato di sette piani entro un angusto lotto tra edifici circostanti, di opinabile valore estetico, è stata regolarmente assentita dai competenti uffici comunali, previa demolizione di un decoroso villino anni ’70 non producendo né apprezzabili soluzioni architettoniche né convenienze pubbliche di tipo urbanistico (pure previste da dispositivi normativi, in varie forme). Ciò peraltro come in almeno altri 4/5 casi simili rinvenibili in zone (di completamento) centrali e semicentrali (via Romagna, via Calabria, via Leopardi, Strada Parco).

La rinuncia ad “amministrare l’urbanistica”, secondo criteri capaci di generare nuova qualità urbana, sta producendo, in una città carente di urbanizzazioni minime (in zone semicentrali vi sono strette strade di sezione inadeguata e senza marciapiedi), costi sociali che vengono scontati dalla collettività, in termini di scarsa offerta di servizi bassa qualità della vita.

Eppure la disciplina urbanistica negli ultimi decenni ha teorizzato l’utilità e la sostenibilità (sociale ed economica, oltre che tecnica) di programmi di rigenerazione urbana (ormai abbondantemente sperimentati) fondati sulla densificazione (concentrazione delle volumetrie in altezza) del tessuto edilizio, in ambito urbano. Ovvero su interventi ben pianificati di demolizione di edifici (o isolati) obsoleti, caratterizzati da modesta densità e notevole estensione a terra (consumo di suolo), seguiti da idonei programmi di ri-costruzione di nuove volumetrie, dalle caratteristiche tecnologiche più performanti. Ciò consente di massimizzare la rendita immobiliare, conferendo remuneratività a tali operazioni (agli investitori) e al contempo di ripensare le aree liberate dalle demolizioni, identificandole con preziosi vuoti urbani la cui ri-strutturazione (ben concepita) può elevare la sostenibilità complessiva delle città. Nuovi luoghi centrali, identitari in cui concentrare importanti spazi verdi, collocare aree per servizi di utilità collettiva e funzioni urbane rilevanti. Ambiti “porosi” sotto tanti aspetti, cioè progettati per favorire relazioni tra residenti e frequentatori, determinando maggiore vivibilità e una nuova qualità di vita complessiva (migliore microclima, idonei spazi per la socialità, elevata sicurezza reale e percepita, come dimostrato da recenti buone pratiche, anche in Italia (la rigenerazione urbana della nuova “down town” di Milano).

L’originale “interpretazione montesilvanese” dei processi di rigenerazione urbana invece è ben altra.  Nella nostra città “programmi parcellizzati”, per addizione di episodi insignificanti, consentono la realizzazione di imponenti edifici entro lotti minuscoli che non mettono in gioco né per dimensione né per qualità del progetto urbanistico (come di quello architettonico) nessuna delle predette convenienze collettive attese da operazioni virtuose. In un contesto già difficile essi anzi si qualificano quali generatori di nuovi carichi urbanistici insostenibili, a fronte dei quali può constatarsi regolarmente l’assenza di minime opere di urbanizzazione. Posto che non si possono valutare quali interventi perequativi, ovviamente, né il modesto controvalore delle somme versate quali contributi dovuti per gli oneri di urbanizzazione né tantomeno altre eventuali (verosimili) forme di monetizzazione. Considerando peraltro che compensazioni di natura economica non producono quasi mai idonee soluzioni spaziali in grado di qualificare realmente lo spazio pubblico. Questa prassi urbanistica, frutto di una burocratica applicazione, e di ardite interpretazioni del combinato disposto di norme e regolamenti statali, regionali, locali, produce “artificiose” possibilità di cumulo di volumetrie e connesse rendite fondiarie significative sacrificando però oltre che la qualità urbana come intesa, valori estetici e pubblico decoro, mancando anche spesso di farsi carico della salvaguardia di essenziali diritti di veduta e altre servitù, pure civilisticamente riconosciute.  Il definitivo svilimento della nostra come di buona parte della città costiera adriatica, inoltre, è il frutto anche di uno “strabismo” che consente a vari gate keepers (enti terzi e istituzioni sovraordinate, preposte all’emissione di nulla osta ope legis), cui pure dovrebbero stare a cuore tutele e salvaguardie, di rilasciare pareri favorevoli che consentono trasformazioni urbane così significative (in negativo) frapponendo spesso invece dinieghi invalicabili alla realizzazione di interventi minuti promossi da comuni cittadini.  Qualcuno, infatti, “… a Berlino”, pare abbia stabilito che il tessuto urbano di Montesilvano, di scarso pregio e già compromesso, non meriti cautele ulteriori.

La cattiva urbanistica locale tuttavia è ascrivibile anche a una imprenditoria immobiliare poco lungimirante. Un mercato della domanda in così significativa contrazione e più competitivo dovrebbe determinare un’offerta caratterizzata dal valore aggiunto degli investimenti: non da rendita pura, fine a se stessa. La produzione edilizia locale, invece, non più al passo con i tempi, sembra avere in scarsa considerazione cittadinanza, consumatori, probabili acquirenti. Qui non ancora si comprende, in un quadro sempre meno florido, come investimenti capaci di generare qualità urbana apprezzabile siano gli unici in grado, nel prossimo futuro, di alimentare una domanda minima sempre più orientata verso competitività dei processi e qualità del prodotto.

Infine, due quesiti rivolti a chi, sebbene con diversi ruoli e attribuzioni, rappresenta l’istituzione locale. Quale attività di vigilanza gli uffici comunali preposti esercitano concretamente (almeno a campione, stante l’attuale lasco quadro normativo) per accertare la conformità di quanto effettivamente realizzato ai progetti inoltrati per conseguire titoli abilitativi?

In che modo gli amministratori locali della terza città d’Abruzzo (i nuovi in particolare anche in ragione del notevole consenso raccolto nell’ultima consultazione elettorale), nella quale da anni si è cestinata una costosa, pur qualitativa bozza di PRG, intendono fronteggiare questa consolidata rinuncia della politica a governare i processi di trasformazione, soccombendo a prassi favorevoli a pochi?

É tempo di affrontare, finalmente, con urgenza, rinnovata consapevolezza ed efficacia concreta, la gestione della materia urbanistica. Anche per fugare la diffusa sensazione che si possa preferire ancora in futuro alla redazione di piani e programmi di interesse pubblico e di lungo respiro, avallare il ricorso sistematico a soluzioni provvisorie, occasionali, palliative che avvicinano, per consuetudine atavica, le norme locali a deroghe.

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