Bertrando Spaventa filosofo e politico

Bertrando Spaventa filosofo e politico

di Pasquale Criniti

Bertrando Spaventa, primo di sette figli, nacque a Bomba (Chieti) il 26 giugno 1817 da Eustachio e da Maria Croce, sorella di Onorato e di Benedetto Croce, nonno del filosofo omonimo. All’anagrafe venne registrato come Beltrando. La sua biografia s’intrecciò sul piano sia politico sia intellettuale con quella del fratello Silvio, più giovane di cinque anni, che divenne poi un importante statista dell’Italia unita.

Studiò presso il Seminario diocesano di Chieti e venne ordinato sacerdote più per condiscendenza verso la famiglia che per intima convinzione: nel 1838, ottenuto l’incarico di docente di matematica e retorica presso il locale Seminario, si trasferì col fratello a Montecassino. La sua formazione continuò a Napoli dove, giunto nella seconda metà del 1840, si dedicò anche allo studio del tedesco e dell’inglese: fu infatti tra i primi a studiare i filosofi stranieri nella loro lingua originale. Si avvicinò ai circoli liberali e a pensatori come Ottavio Colecchi e Antonio Tari. Fondò una scuola privata di filosofia; inoltre partecipò alla redazione de Il Nazionale, giornale fondato e diretto dal fratello Silvio.

Nel 1848, dopo l’abrogazione della Costituzione da parte di Ferdinando II, fu costretto a lasciare Napoli per trasferirsi prima a Firenze quindi a Torino, dove depose l’abito sacerdotale e divenne giornalista scrivendo su giornali e riviste piemontesi: Il Progresso, Il Cimento, Il Piemonte, Rivista Contemporanea.

Prima della partenza per Torino Spaventa chiese una cattedra al Ministro dell’Istruzione del Regno di Sardegna, ma la domanda non ebbe esito né allora né in seguito. Per anni la sua principale fonte di sostentamento, con la quale cercò anche di sopperire alle necessità del fratello condannato nel 1852 all’ergastolo, fu l’attività di giornalista e traduttore.

Nel periodo torinese Spaventa si avvicinò al pensiero di Hegel ed elaborò il proprio sistema filosofico e il pensiero politico: pubblicò, tra l’altro, una serie di saggi in cui polemizzava con La Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti, rifiutando l’idea di religione come passo necessario per lo sviluppo umano. Dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone e l’interruzione del processo democratico in Francia, aderì a posizioni liberali-cavouriane, intervenendo nel dibattito politico subalpino con una serie di articoli sulla libertà d’insegnamento, in cui sostenne una posizione intransigentemente laica volta a contrastare l’egemonia della Chiesa in campo educativo.

Le posizioni anticonformiste, l’avversione al ‘panteismo’ tedesco e le aspre polemiche sostenute da Spaventa contro l’establishment filosofico moderato (in particolare Terenzio Mamiani, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti) accentuarono il suo isolamento nell’ambiente torinese, creandogli per molti anni difficoltà anche sul piano della collaborazione alle riviste, che restava la sua unica e sempre più precaria fonte di reddito.

Dopo il matrimonio con Isabella Sgano, dalla quale ebbe tre figli (Emilia, morta a tre anni, Camillo, nato nel 1856, e una seconda figlia, Emilia anch’ella, nata nel 1861), la sua condizione esistenziale si fece così difficile che poté contare solo sul sostegno degli amici più stretti della folta colonia di esuli napoletani a Torino.

Una svolta importante avvenne con la scarcerazione di Silvio nel gennaio del 1859 e con gli eventi politico-militari di quell’anno: in ottobre, infatti, Luigi Carlo Farini, dittatore delle province emiliane, gli offrì la cattedra di filosofia del diritto presso l’Università di Modena.

Nel 1860 ottenne la cattedra di Storia della filosofia all’Università di Bologna, incarico che alternò, come supplente, a quello modenese assegnato nel frattempo al fratello Silvio (che tuttavia, avviatosi alla carriera politica, non prese mai servizio).

Il 29 ottobre 1860, poco dopo l’impresa garibaldina e l’annessione delle province meridionali, il Ministro dell’Istruzione del governo Cavour, Francesco De Sanctis, nel quadro di un radicale rinnovamento delle strutture universitarie, chiamò alla cattedra di filosofia teoretica dell’Università di Napoli proprio Spaventa che però prese servizio solo l’anno seguente.

E sempre a Napoli, tra il novembre e il dicembre del 1861, Spaventa tenne le lezioni in cui espose le sue teorie sul rapporto di circolarità tra pensiero italiano ed europeo.

Scopo di questa interpretazione era quello di liberare la cultura filosofica italiana dal suo provincialismo attraverso la diffusione nella penisola dell’idealismo tedesco, in particolare hegeliano.

Nel 1861 fu eletto deputato nel collegio di Atessa (Chieti), ma l’elezione fu annullata per eccesso di docenti tra i deputati. Fu eletto successivamente deputato nel collegio di Gessopalena (Chieti), tra il 1870 e il 1876, fino alla caduta della Destra. Si ricandidò nel 1876, ma non fu eletto.

Fu sostenitore di una politica laica e legata a un forte senso dello Stato, considerato come sorgente dei princìpi e dei valori ispiratori di un armonioso sviluppo civile, da cui gli individui e la comunità devono trarre l’alimento necessario per una crescita «ordinata e corretta».

Fu membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione dal 1861 e fece parte nel 1868 di una commissione d’indagine su alcune vicende dell’Università di Bologna, in cui era stato coinvolto anche Giosuè Carducci, che diedero luogo a vivaci polemiche politiche e giornalistiche. Anche l’esperienza come delegato al Provveditorato agli Studi di Napoli, iniziata nel 1866, si concluse nel 1869 con le sue dimissioni per insanabili contrasti con il ministero.

Nel 1872 diede vita a una rivista, il Giornale napoletano di filosofia e lettere, che diresse insieme a Francesco Fiorentino e Vittorio Imbriani. Il periodico, concepito in opposizione alla filosofia accademica d’impronta spiritualistica e al nascente positivismo, ebbe vita stentata per difficoltà editoriali e organizzative, e cessò le pubblicazioni dopo un solo anno.

Uno dei propositi di Spaventa era il tentativo di far uscire gli intellettuali italiani dal provincialismo stagnante in cui versavano, apportando gli elementi più innovativi del pensiero idealistico d’oltralpe, per dare un fondamento filosofico-culturale al processo rivoluzionario dell’unificazione nazionale.

Così si esprimeva:

«Ripigliare il sacro filo della nostra tradizione filosofica, ravvivare la coscienza del nostro libero pensiero nello studio dei nostri maggiori filosofi, ricercare nelle filosofie delle altre nazioni i germi ricevuti dai primi padri della nostra filosofia e poi ritornati fra noi in forma nuova e più spiegata di sistema, comprendere questa circolazione del pensiero italiano, della quale in gran parte noi avevamo smarrito il sentimento, riconoscere questo ritorno del nostro pensiero a sé stesso nel grande intuito speculativo di Hegel, sapere insomma che cosa noi fummo, che cosa siamo e che cosa dobbiamo essere nel movimento della filosofia moderna, non come membri isolati e scissi dalla vita universale dei popoli, né come avvinti al carro trionfale d’un popolo particolare, ma come nazione libera ed eguale nella comunità delle nazioni: tale, o signori, è stato sempre il desiderio e l’occupazione della mia vita. Son molti ancora in Italia i quali tacciano di astratta e oscura la filosofia alemanna e, reputandola contraria alla natura speculativa dell’ingegno italiano, si accontentano di una maniera di sapere che non ha nessuna connessione con la nostra tradizione filosofica; è un perpetuo oltraggio alla memoria de’ nostri sommi ed infelici pensatori, e la principal cagione del decadimento della scienza tra noi. Costoro dimenticano la storia del pensiero italiano, della quale furono gli eroi e martiri i nostri filosofi; non ricordano i roghi di Giordano Bruno e di Giulio Vanini, la lunga prigionia di Tommaso Campanella, e l’umile pietra che, nel tempio de’ Gerolomini in Napoli, ricopre le ceneri di Giovambattista Vico, ultima luce del nostro mondo intellettuale. Non i nostri filosofi degli ultimi duecento anni, ma Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, sono stati i veri discepoli di Bruno, di Vanini, di Campanella, di Vico, ed altri illustri».

Spaventa rigettava l’individualismo che privilegiava l’interesse del singolo, assegnando allo Stato una funzione “pedagogica” nel promuovere gli interessi di tutti e tutelando la famiglia, in cui si forma l’individuo, e al contempo la società civile.

«La famiglia e la società civile hanno la loro verità nello stato. Dove lo stato non è altro che famiglia (stato patriarcale), o una istituzione di pubblica sicurezza (polizia), non solo lo stato non è il vero stato, ma né la famiglia né la società civile esistono nella loro vera forma. Lo stato è l’unità del principio della famiglia e del principio della società civile. Non è una semplice associazione fondata mediante il libero arbitrio, il patto etc., né una associazione puramente naturale. È tutto ciò insieme. È assoluta soggettività etica degli individui. Assoluta, perché è sostanza; soggettività, perché è saputa e voluta dagli individui liberamente come la loro stessa essenza (etica) e universalità. Dove manca tale sapere e volere, lo stato non è libera soggettività, e l’individuo non ha vero valore (individualismo moderno). In altri termini: è la sostanza nazionale, conscia veramente e realmente di sé medesima; lo spirito di un popolo (come tale, come spirito etico) nella sua vera e perfetta esistenza.»

Con Spaventa la filosofia in Italia cessa d’essere esercitazione accademica e vacua speculazione, e si avvia a diventare organica visione del mondo, da cui derivi e consegua una morale, si avvia cioè a diventare religione laica, dando inizio a quel largo movimento di distacco di intellettuali dalla Chiesa cattolica.

Allievi della scuola hegeliana del filosofo abruzzese furono Francesco Fiorentino (1834–1884), Sebastiano Maturi (1843–1917), Donato Jaja (1839–1914), Filippo Masci (1844–1922), Felice Tocco (1845–1911), Antonio Labriola (1843–1904), Nicolò d’Alfonso (1853–1933).

Anche l’idealista Benedetto Croce, che dopo la morte dei genitori andò a vivere da Silvio Spaventa, seguì le lezioni di Bertrando, apprezzandone soprattutto lo spirito profondamente liberale.

Bertrando Spaventa morì a Napoli, in seguito a un attacco di angina pectoris, il 21 febbraio 1883.

Lascia un commento