STORIE DI NEET

STORIE DI NEET

di Davide Canonico

Girovagando senza una meta precisa tra i meandri della rete, mi sono imbattuto in un articolo un po’ datato, ma interessante, scritto da Alice Facchini, per la rivista Internazionale.

La giornalista parla in maniera efficace ed originale delle difficoltà che i giovani incontrano nel trovare lavoro in Italia. Primi in Europa per numero di NEET (giovani tra i 15 e 24 anni che non studiano e non lavorano) e “solo” terzi per più alto tasso di disoccupazione giovanile, la cosa non desta particolare stupore. Parliamo di giovani per lo più residenti nel Mezzogiorno, che vivono ancora con i genitori, che quasi sempre possiedono un titolo di studi (un diploma ma spesso anche una laurea). Eppure, al di là delle statistiche, la cosa interessante è che in questo caso si sono voluti mettere da parte i numeri per ricordare che dietro a ciascuno di loro vi è una persona e la sua storia. Una storia che ciascuno dei nostri ragazzi potrebbe trovarsi a vivere. Perché sebbene sia necessario riassumere e semplificare attraverso i numeri, essi raramente riescono e trasmettere con empatia il loro riscontro nella vita reale. Così l’autrice ha deciso di fingersi una giovane neo laureata in discipline umanistiche con un buon curriculum accademico e sperimentare in prima persona cosa significhi dover cercare lavoro per un giovane fresco di studi. Curriculum alla mano, si arma di pazienza e con costanza propone la sua candidatura su diversi siti di annunci alla ricerca di una posizione attinente al suo percorso formativo. Gli unici riscontri che riceve sono da parte di gruppi di network marketing oppure offerte nel mondo della gig economy: due mondi piuttosto controversi nati dalle nuove necessità del mercato moderno e che celano diverse insidie al loro interno. Il primo fa riferimento alla possibilità di diventare rappresentante per conto di aziende specializzate, creandosi una propria rete di clienti a partire da amici e partenti. Un esempio classico è quello legato al mondo della cosmetica. È una possibilità lavorativa aperta a tutti, l’unico requisito richiesto è l’acquisto di un kit iniziale di prodotti ma, come sottolineato nell’articolo menzionato, le ditte serie sono poche e sempre le stesse, mentre la maggior parte punta solo a incassare i soldi del kit iniziale. Dietro le promesse di salti di carriera e rapida crescita del proprio network, si nasconde un sistema di lavoro dove la bilancia pende ampiamente a favore dell’azienda. Non mancano poi le aziende che, spacciando per sicura l’assunzione, richiedono prima di questa un percorso di apprendistato non retribuito oppure la frequenza di un corso di preparazione a pagamento. La seconda strada, quella della gig economy, è strettamente legata al mondo delle app e del digitale. Il termine indica l’assenza di un lavoro continuativo a vantaggio di un sistema di lavoro su richiesta. Ne sono esempi Uber e tutte le varie forme di consegna a domicilio di pasti pronti come Deliveroo. È un sistema che sembra garantire molta flessibilità al lavoratore, a fronte di una mansione piuttosto semplice da eseguire. La realtà è che le condizioni rasentano lo sfruttamento: il salario è talmente basso che è necessario lavorare molte ore per garantire un vero guadagno e il lavoratore non gode di alcuna forma di tutela.

Il dubbio, giustamente espresso in merito a queste forme di lavoro, non è tanto se possano definirsi tali, quanto se si possano ritenere capaci di garantire un vero reddito.

Passano così tre mesi di infruttuosa ricerca, senza nemmeno un colloquio. L’autrice non può fare a meno di concludere il suo articolo chiedendosi se i molti giovani, la cui storia coincide con il suo alter ego, saranno capaci di non arrendersi, magari ripiegando momentaneamente in un lavoro diverso dalle proprie inclinazioni, o se entreranno anche loro ad ingrossare le file dei NEET. Noi, invece, cavalchiamo ancora un po’ l’onda della fantasia e immaginiamo che la nostra neo laureata riesca a ottenere il colloquio tanto auspicato. Vorremmo dirle che la strada d’ora in avanti sarà in discesa ma, ahimè, è l’inverso. Evitiamo di ricordarle che un solo colloquio probabilmente non basterà, che dovrà affrontare prima il colloquio di gruppo, poi quello individuale psico attitudinale, quello teorico con la dirigenza e…per ora fermiamoci qui. Pensiamo al classico colloquio con le risorse umane. Ci sono voluti tre mesi di scoramento e falcidia della propria autostima per arrivare a sedersi in una stanza a dimostrare di essere la persona giusta per quel lavoro. Per farlo, dovrà sottoporsi a un’intervista dagli argomenti più disparati: perché vuoi lavorare per noi? quali sono i tuoi pregi? i tuoi difetti? dove ti vedi tra 10 anni? quel è stata un’occasione in cui hai dimostrato le tue capacità di leadership? quanti bambini nascono in Italia ogni anno? Sono domande fatte soprattutto per vedere la capacità di ragionamento; la risposta conta fino a un certo punto e non va intesa in termini di giusto o sbagliato. Lo sa lo scrutatore, il quale si aspetta un certo tipo di risposta, e lo sa il candidato, il quale è conscio di dover affrontare le domande in un determinato modo. Ma dopo tutta la fatica che questa ragazza ha fatto per sedersi su quella sedia, non meriterebbe una valutazione più attenta e sincera, basata sulla persona, senza che questa emerga attraverso domande tanto stereotipate?

Del resto, se potesse essere sincera probabilmente risponderebbe: “In realtà volevo fare la testimonial per Chanel, però mi avete chiamato voi e, sa com’è,…la spesa non la posso pagare con sogni e speranze. I pregi? Guardi, se fatica mia madre a trovarli dopo 24 anni, siamo sicuri che vogliamo provarci io e lei in 20 minuti? Però stia tranquillo: difetti gliene trovo quanti ne vuole, basta sia disposto a prendersi qualche giorno di permesso perché ci vorrà un po’ a elencarli tutti. Probabilmente tra 10 anni sarò ancora qui a elencarglieli. Leadership…non riesco a farmi dar retta dal mio gatto, figuriamoci da un essere umano! Comunque su una cosa sono sicura: ascolto sempre il telegiornale e dicono che siamo un paese a crescita zero; quindi di bambini, almeno in Italia, non ne nascono”.

Ma diciamo che la sincerità paga a giorni alterni e oggi forse è meglio usare un po’ di strategia.

Insomma, cercare lavoro non è solo difficile, è estenuante. La nostra aspirante lavoratrice non ha ancora un lavoro, ma già vorrebbe andare in pensione. Ma è meglio se affrontiamo questo argomento la prossima volta, non vorremmo demoralizzarla ulteriormente.

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