Il gioco come miseria culturale

Il gioco come miseria culturale

di Marco Tabellione

     La patologia del gioco sta diventando una vera disgrazia sociale, che non risparmia nessuna entità urbana, siano esse metropoli o cittadine come Montesilvano. Dostoevskij conoscitore fine dell’animo umano, nel romanzo Il giocatore, segue le vicende di un uomo che perde il controllo sulla propria esistenza a causa del vizio del gioco. Come per un altro romanzo cardine della letteratura contemporanea, Memorie del sottosuolo, il grande scrittore russo con il suo testo è stato sicuramente uno dei primi grandi intellettuali ad approfondire le motivazioni psicologiche del gioco. Il gioco, inteso in senso lato, può essere considerato come una delle pratiche basilari dell’essere umano. I bambini svolgono le prime fasi dell’apprendimento attraverso l’esperienza ludica, imparano giocando, e forse una delle pecche della scuola odierna è che l’aspetto ludico, se è considerato, è considerato come riposo dall’attività di studio e di lavoro, e non diventa mai momento centrale.

È evidente, però, che il giocatore d’azzardo, e in special modo chi contrae il vizio del gioco per denaro, non insegue le finalità del gioco come speranza di apprendimento, esperienza quest’ultima che si svolge, al contrario del gioco d’azzardo, in una dimensione di leggerezza. È in effetti proprio l’alleggerimento che consente all’esperienza ludica di dirottare la tensione dell’apprendimento oppure di scioglierla, per cui l’individuo riesce ad apprendere senza sforzo, dunque senza il dispendio elevato di energie mentali e di concentrazione, che rendono altrimenti l’esperienza didattica impegnativa e ostica. Si pensi ai bambini che imparano a camminare, a parlare, e a relazionarsi con il mondo, semplicemente giocando.

Ciò che interviene nel gioco d’azzardo dunque non è la leggerezza, non è cioè lo svolgimento di una pratica impegnativa e coinvolgente svolta in distensione. Le motivazioni del giocatore d’azzardo sono diverse, rientrano nella necessità di ogni essere umano di coltivare un sogno, un desiderio, la ricerca di un piacere, sfociando a volte in vere e proprie ossessioni. Il giocatore è schiavo del gioco, questo è il punto fondamentale, diventa a volte talmente dipendente del gioco da mettere a rischio anche l’equilibrio della propria esistenza.

Ma cos’è che spinge il giocatore? Probabilmente è la reiterazione del momento estatico di una vincita; ci deve essere stata una prima volta in cui il giocatore ha assaporato la felicità della vittoria, di una vincita in denaro, ed ecco nascere in lui l’obiettivo di ricreare continuamente quel piacere, diventa schiavo del piacere stesso. Ad un certo punto egli non gioca più per vincere denaro, ma gioca per provare quel piacere. Ed è qui che interviene l’elemento culturale, l’orizzonte di apprendimento di cui si parlava prima. Nel gioco come apprendimento un elemento essenziale è quello del miglioramento, vale a dire della bravura di chi gioca, i bambini ad esempio sperimentano delle abilità quando giocano. Il gioco d’azzardo, al contrario, è quasi sempre affidato unicamente alla fortuna, a volte oltre alla fortuna è caratterizzato da abilità di calcolo, che tuttavia in molti giochi d’azzardo non compaiono per niente, così ad esempio per le slot machine. Cos’è allora che influenza il giocatore fino a spingerlo ad affidarsi completamente al gioco?

Ricordiamo che Dostoevskij scrisse Il giocatore in un mese, nella necessità di fondi che gli servivano per pagare proprio i debiti di gioco. Evidentemente scrivendo il romanzo è riuscito a compiere uno sforzo di miglioramento, un’elevazione interiore e intellettuale, che può aver contribuito a liberarlo dal vizio. È appunto ciò che manca al vizio del gioco; il gioco d’azzardo è essenzialmente privo del senso del miglioramento interiore, che è lo scopo principale della cultura. Cultura deriva da un termine che in latino significava anche coltura, cioè coltivazione, la coltivazione non di vegetali evidentemente, ma di essere umani. Chi gioca non riesce appunto a fare questo, cioè a spendere le proprie energie per un obiettivo che è poi l’obiettivo tipico della cultura: vale a dire il miglioramento spirituale e intellettuale dell’uomo.

Il vizio del gioco è dunque indice di miseria culturale. Ciò non vuol dire che colpisce solamente fasce legate ad un certo tipo di istruzione, può investire anche frange culturalmente più elevate, anche intellettuali, come nel caso di Dostojesvki, nei quali però la cultura ad un certo punto, evidentemente, non svolge più la funzione del miglioramento interiore. Liberarsi dal vizio del gioco può accadere solo se si riesce a sostituire all’obiettivo del piacere della vincita, cercata in maniera ossessiva, un’altra forma di piacere, che è quella che deriva dalla capacità di controllo delle nostre tendenze al piacere, controllo che può essere offerto solo dall’allenamento culturale dell’individuo. Che cosa vogliamo fare della nostra esistenza, è questo il punto fondamentale. Quale senso vogliamo attribuirgli, quale significato. E tale significato non può che scaturire da una ricerca personale e da un’esperienza appunto culturale.

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