A proposito di morale e etica….

di Raffaele Simoncini

E’ distinzione filosofico-giuridica, prima ancora che linguistica, quella tra il termine “morale” e il termine “etica”.

Il primo termine – morale – con precisa radice semantica nella lingua latina, sta ad indicare “ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per la mia coscienza”; il grande filosofo Kant ha riassunto tale significato nella celeberrima espressione “tribunale della coscienza”: in altri termini, è morale ciò che io giudico, con la mia coscienza e nel mio agire, giusto, buono, corretto, vero etc.

Ovviamente, è immorale ciò che ripugna alla mia coscienza, ciò che non farei mai e non accetterei mai di fare.

Il secondo termine – etica – anch’esso con precisa radice semantica nella lingua greca, sta ad indicare “ciò che è giusto e buono e corretto” nel mio agire pubblico; detto in altri termini, è etico il mio comportamento sottoposto al controllo e al giudizio degli altri esseri umani.

Un esempio può essere utile a chiarire ulteriormente la precisa distinzione tra morale ed etica. D’estate, quando fa molto caldo, in casa sono abituato a girare nudo: faccio la doccia spesso e preferisco non rivestirmi, perché il solo pensiero dei vestiti mi fa sudare. Naturalmente, tengo tutte le finestre aperte e spalancate, con le serrande tirate su e, perché no? se voglio mi faccio anche qualche passeggiata sul terrazzo, di sicuro dove c’è l’ombra!

Ecco: girare nudo per casa, per me è normale, è comportamento accettato dalla mia coscienza, considerato buono e giusto, dunque è per me morale. Nulla mi ripugna di tale comportamento e mi trovo a mio agio in quella condizione. Ma…

Ma, se è accettato dalla mia coscienza andare nudo per casa, sorge una questione successiva: serrande e finestre aperte e passeggiate sulla terrazza sono comportamenti validi e giusti anche per chi mi dovesse vedere dall’esterno, ad esempio i vicini di casa? Il problema devo porlo a me stesso e devo valutarne le conseguenze: e se i vicini detestassero questo mio modo di agire? Se la considerazione che essi hanno per me venisse intaccata da questo mio modo di agire? Se, in caso estremo ma possibile, un vicino mi denunciasse alle autorità, per “atti osceni in luogo pubblico”?

In questo caso, il mio comportamento è etico, perché viene sottoposto al giudizio e alla valutazione degli altri: in poche parole, il mio agire è pubblico e non privato.

Pertanto, la morale attiene alla mia sfera privata e l’etica, invece, alla mia sfera pubblica. Come insegna Machiavelli, nel Principe – che è opera del 1513, ma sempre oltremodo attuale e piena di insegnamenti – l’uomo politico (appunto, il principe) deve saper “dissimulare”: anche se non è credente, deve partecipare ai riti religiosi e farsi vedere e rispettare in pubblico, anche se è vendicativo e pronto ad uccidere, deve essere considerato e apparire buono e caritatevole e così via. Il perché di tutto ciò è subito detto: nel privato, il principe può essere quello che non può essere nella sua dimensione pubblica, ovvero, nel privato si giudica nel pubblico viene giudicato.

Anche un profano comprende benissimo questa distinzione.

Nel sapere popolare e nei linguaggi vernacolari, cioè dialettali, spesso si usa l’espressione, carica di significato: “che stai a fare finta di qualche cosa?” Detta in italiano, questa espressione perde senz’altro di efficacia, ma il senso è palese: far finta, ovvero non essere propriamente se stesso in pubblico, ma altro, e dietro questo “altro”, c’è tutta una gamma di significati sottintesi!…

Trasferendoci dalla piccola realtà paesana a quella nazionale, il quadro muta radicalmente. In televisione, nei cosiddetti dibattiti politici, la confusione di morale e etica deriva senz’altro da ignoranza degli interlocutori e spesso appare un modo di confondere le idee e di non permettere più di capire esattamente come stanno le cose. E’ grave, per un politico, non sapere cosa sia morale e cosa sia etica, ma lo è anche per un giornalista o per altro uomo pubblico!

Se sono un esponente di una parte politica e voglio difendere un soggetto del mio partito, posso formulare una frase come questa: “il politico X è uomo che ha sempre dimostrato, nella sua attività di partito e nelle responsabilità che ha assunto, con dedizione e sacrificio, una sua dirittura morale e etica”.

Cosa voglio dire di preciso? Quasi certamente, voglio far passare l’idea che le accuse rivoltegli sono ingiuste e che la sua onestà è certa, almeno “fino al terzo grado di giudizio”, sempre che non intervenga la santa prescrizione….

Ma le accuse rivolte al politico della mia parte fanno riferimento alla sua vita privata o alla sua vita pubblica? O a tutte e due?

Perché, se le accuse sono rivolte alla sua vita privata, non hanno senso: ad esempio, se il politico, non credente, non va a messa e non si avvicina ai sacramenti, non posso giudicarlo negativo e incapace, perché non ha la mia stessa morale di credente. La libertà di coscienza, per fortuna, è garantita dalla Costituzione Repubblicana.

Se, invece, sempre lo stesso uomo, nella sua vita pubblica di politico, è corrotto e ha fatto irregolarità o ha commesso reati, allora è mio dovere giudicarlo e trarne le debite conseguenze, ad esempio, non votandolo più alle prossime elezioni: il suo comportamento è stato ed è etico, perché necessariamente sottoposto al giudizio degli altri.

A volte, i due comportamenti tendono a sovrapporsi, quando l’agire privato va a riflettersi anche e soprattutto nella sfera pubblica: in tal caso, il privato quasi scompare e diviene tutto pubblico, sottoposto esclusivamente al giudizio degli altri. Il recentissimo caso di un ex presidente del Consiglio, con processi ancora in corso, è l’esempio più lampante di come un comportamento morale (o immorale) si trasformi immediatamente in comportamento non etico, non giudicabile positivamente in ambito pubblico, anzi dis-etico, contrario alle regole della convivenza civile e delle norme.

Una splendida e lapidaria espressione afferma: la legge non ammette ignoranza. Si tratta di uno dei principi fondamentali di uno stato di diritto, per cui a nessuno è permesso di dire o affermare: “ma io non lo sapevo!”

Si potrebbe parafrasare questo fondamento di civiltà giuridica e ritrascrivere: una lingua non ammette ignoranza; e – aggiungerei – se non si sa cosa significhi una parola, umilmente si interroga un buon vocabolario di lingua italiana (comportamento morale) altrimenti, è meglio tacere (comportamento etico).

Non a caso, Wittgenstein affermava: “se non hai di che dire, non parlare”.

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