LOTARIO DI FULVIO

LOTARIO  DI  FULVIO

di Erminia Mantini

Montesilvano Colle, anche dopo il blitz del ’29, con cui alcuni notabili trasferirono alla Marina l’antico municipio, per molti anni rimase un centro vivo e attivo, con la farmacia, il parroco, il medico condotto e la variegata schiera di bravi artigiani. Cuore del borgo era l’Ufficio Postale, vicino alla Chiesa madre. Era titolare Dovilio Di Fulvio, ‘za Doviglie, subentrato alla famiglia Sciarretta nella gestione dei servizi postali e telegrafici per conto dello Stato. Egli aveva anche rilevato dall’avv. Marino, in via Di Mezzo, un’antica dimora, dove viveva con la sua famiglia. Avviò al lavoro postale i figli Licinio e il giovanissimo Lotario, che da supplente cominciò a familiarizzare con lettere, cartoline postali, pacchi, telegrafo e timbri. Fu così che Lotario, sorridente ed estroverso, alquanto restio alle ‘sudate carte’, per essere regolarmente assunto si convinse a conseguire il diploma di terza media.

Stabilizzò la sua posizione dopo il servizio militare: <Ho fatto il soldato, a guerra finita, quando è scoppiata la pace!> soleva dire con la sua naturale inclinazione alla battuta. Dal secondo dopoguerra le Poste crebbero nelle operazioni finanziarie, incrementarono i servizi, acquisendo tutti i pagamenti e le riscossioni dello Stato. Lotario divenne direttore dell’ufficio e punto di riferimento del borgo e dell’intero contado. Era il “banchiere” del Colle; conosceva le situazioni anagrafiche, economiche e problematiche di intere famiglie, di cui spesso era consigliere, confidente, amico. Non di rado, nelle ore pomeridiane, si recava in campagna a riportare libretti, a raccogliere documenti per sbrigare pratiche pensionistiche, a suggerire le più convenienti forme di risparmio.

Aveva creato una vera rete sociale, coadiuvato dallo storico postino del Colle, Mariano Di Luca, che, dopo lo spoglio delle inviolabili buste e il loro raggruppamento per zone, partiva per il giro quotidiano. Con la divisa e il cappello, la pesante borsa a soffietto portata a tracolla, sfidava il sole cocente o le intemperie. Raggiungeva a piedi prima, poi con una moto scassata, infine con l’annosa Cinquecento, ogni singola casa, da Terrarossa alla Colonnetta, da Santa Lucia alla Torre dell’acqua, ai confini con Spoltore, con qualche breve sosta ritemprante. Insieme a lettere e giornali portava e riportava fatti, notizie e dicerie. E così Lotario aveva sotto controllo l’intero territorio ed era diventato per molti un vero capo carismatico, cui affidare la soluzione di un problema. Alle espressioni di gratitudine svicolava con qualche amenità, come quando raccontava di un certo Michele Carchesio, che si lamentava sempre con lui della moglie: lo maltrattava quotidianamente, rendendogli la vita impossibile! E un bel giorno, Lotario, su richiesta di Michele ormai disperato, redasse una scrittura in cui si intimava alla moglie-tiranna “di lasciare in pace Michele, di cucinargli una bistecca al giorno e di non provocare mai più incazzature”! Due timbri ben assestati sul foglio, da vero rogito, avvaloravano la firma di Lotario buontempone!

Conobbe e sposò Livia Pagliardini, che si era trasferita a Montesilvano Colle da Pesaro, per aver vinto diversi concorsi come ostetrica condotta nei paesi vicini. “La Livia”, come Lotario la chiamava, con una sorta di adorazione che durò tutta la vita, aveva portato alla luce tante creature in ogni angolo del paese, risolvendo spesso situazioni d’emergenza: in macchina, negli androni dei palazzi, negli sperduti casolari di campagna, dove il neonato si pesava con la stadera, cui si appiccava poi un festoso fiocco! Vissero per qualche anno nel palazzo di famiglia, poi, dopo la nascita di Aristide, a metà degli anni Cinquanta, si trasferirono alla Marina in un appartamento lungo la Nazionale. Condussero una vita austera e ben pianificata, con obiettivi precisi, soprattutto dopo la nascita del secondogenito Carlo: bisognava costruire una casa e accantonare il necessario per sostenere i futuri studi universitari. Infatti Lotario acquistò dai Colagrande una proprietà accanto alla chiesa di Sant’Antonio, affidandone la costruzione al compaesano Ricuccio.

Durante le vacanze estive portava in ufficio il piccolo Carlo, assegnandogli alcune mansioni, come scrivere le raccomandate a mano, timbrare la posta e, più tardi, anche redigere comunicazioni scritte alla Direzione: il compenso era di 20 lire al giorno! L’ufficio postale si era ingrandito e posizionato in piazza Giardino: nel ’67 venne introdotto il CAP e gradualmente si accelerò il processo di automazione per far fronte all’aumento dei volumi postali. Lotario aveva sperimentato l’alfabeto Morse e il telefono, ma cominciava a sentirsi inadeguato dinanzi alle nuove tecnologie di lavoro; nell’82 andò in pensione, come aveva promesso a Carlo: <Quando anche tu ti sarai laureato, abbandono il servizio>. E si dedicò completamente alla famiglia, nella bella casa di via Benedetto Croce, che aveva realizzato nel ’70, condividendo con la moglie quotidiani sacrifici e rinunce. Ogni mattina le dava il buongiorno, portandole a letto caffè e cornetto e poi con il solito buonumore ottemperava alle faccende domestiche, dalla spesa alla cucina. Era particolarmente appassionato dell’arte culinaria e quasi sempre seguiva le relative trasmissioni, mettendo in pratica le ricette che più lo attiravano. Il suo piatto forte era la trippa, rosa e vellutata, di cui non ha mai voluto rivelare il tredicesimo ingrediente! Ma eccelleva anche nelle “scrippelle ‘mbusse alla Lotario” e diventava vero giocoliere nella preparazione delle “rivotiche” al doppio salto mortale, dopo aver tappezzato il pavimento di giornali!

Gioiva quando poteva realizzare le sue “cucinelle” con le nipotine Piera e Giorgia, coinvolgendo anche Camilla, la più piccola. Aiutava inizialmente Aristide nella gestione dello studio medico; i pazienti lo chiamavano il segretario, perché li intratteneva simpaticamente con il suo fare aperto e gioviale. Si ritrovava spesso con gli amici del Colle, anche dopo la pensione e ogni giorno frequentava il Circolo Marina, dove giocava a scala quaranta, a boccette, di cui era vero campione, sfidando di volta in volta Verziere, Di Baldassarre, i fratelli Di Blasio, il veterinario Di Biagio e soprattutto il maestro Bruno Volpe, amico di lunga data. Si dilettava a suonare il mandolino e da giovane aveva messo su una specie di orchestrina al Colle, dove aveva anche realizzato qualche semplice drammatizzazione: ridendo, diceva che la sua inclinazione artistica l’aveva scoperta leggendo Schake Speare nella soffitta del palazzo paterno, dove convivevano libri e galline sotto l’antica volta a botte! <Sensibile, spontaneo e di grande umanità, si emozionava anche per il finale di un film e sapeva interpretare il nostro stato d’animo solo con lo sguardo>racconta Carlo, ingegnere e professore. <Era orgoglioso della sua famiglia e di noi figli – ricorda Aristide – e in macchina, ci dava pacche sulla coscia, dicendo fieramente quante pane dà guadagnà sti cosse!>.

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